SERIE A ANNI 80 E 90: IL CONFRONTO CON L’ATTUALE PREMIER LEAGUE.

E’ esistita un’epoca, gloriosa, magnificente, specchio dell’identità culturale, folkloristica e popolare, di un’intera nazione, emotivamente e pittorescamente narrata (ancor più romanticamente e nostalgicamente a posteriori, allorquando la sensazione di aver vissuto qualcosa di non replicabile sovverte gerarchie emozionali e acuisce l’impetuoso voltar pagina delle parentesi temporali), intimamente permeante e contraddistinta  (inevitabilmente, va da sé) da un’etichetta storiografica fra le poche coniate all’interno della stessa era che designano, già dunque sancita durante la deflagrante propagazione della sua incommensurabile stesura: si è protratto per oltre due decenni (limitatamente all’eccezionalità, differentemente il ventaglio temporale potrebbe ragionevolmente essere esteso di almeno un lustro) un fragoroso battito di tempo calcistico che non è più esistito.

Che non ha conosciuto repliche, eguagliabili accostamenti, qualitative comparazioni, somiglianze riecheggianti, medesima, indiscussa, superiorità.

Un’età aurea che ha dominato la scena planetaria decretando il periodo più fulgido dell’intera storia del football: ciò che la nostra penisola ha racchiuso e custodito, esaltato e reso per l’appunto magnificente, all’interno dei propri confini, nell’ultimo quinto del secolo scorso (idealmente suddiviso in ventenni) sino alla metà degli anni duemila, ha rappresentato l’apice, la vetta suprema, l’apoteosi dello sport più bello e coinvolgente, massimale espressione d’assolutezza, con una qualità media da far impallidire, e non poco, l’attuale Premier League, senza, or dunque, paragoni di sorta abbracciando la totalità della temporalità sino all’attualità, economicamente, ancor più che qualitativamente ( la prima divisione inglese non ha ancora mai raggiunto i contenuti tecnici apicali della Serie A dello scorso millennio) dominata dal calcio britannico.

“Un uomo che non è mai stato in Italia è sempre consapevole di un’inferiorità”, ha sentenziato Samuel Johnson, settecentesco autore inglese, “per non aver visto quello che un uomo dovrebbe vedere”.

Un’affermazione sorta principalmente per motivazioni accostabili all’immenso patrimonio artistico e più generalmente culturale del nostro Paese e che, facilmente, può essere traslata a ciò che il nostro campionato ha rappresentato in ambito mondiale più di quarant’anni fa e per oltre due decenni: nulla era accostabile alla Serie A, per colori,  folle, atmosfere, gesta.

Una dittatura tecnica ed economica che affonda le radici ai primordi degli anni ottanta, all’alba di un calcio che, reduce dagli strascichi del Totonero e finalmente lontano dalla decisione maturata successivamente alla disfatta mondiale del 1966 contro la Corea del Nord ( che spinse la federazione ad adottare in pianta stabile l’idea già avanzata in via temporanea l’anno precedente, vale a dire il divieto di tesserare calciatori stranieri), concesse nuovamente la possibilità ai nostri club, dopo un decennio, quello relativo agli anni settanta, caratterizzato da un evidente impoverimento complessivo ( che si riflesse inevitabilmente nel ranking UEFA per nazioni, con l’Italia, in un dato momento, addirittura dodicesimo movimento continentale per risultati in ambito internazionale), di tesserare un giocatore d’oltralpe.

Falcao, Brady, Prohaska, Krol, Bertoni, Juary i più rilevanti approdi in un torneo che l’anno seguente avrebbe incrementato gli introiti grazie alla liberalizzazione degli sponsor di maglia e che nel 1982, dopo il più significativo degli avvenimenti tendenti a rimarcare il predominio del nostro movimento calcistico in chiave autoctona, ovvero la vittoria del mondiale spagnolo,  avrebbe ulteriormente aperto al tesseramento di un secondo elemento non italiano: Platini e Boniek vestirono la già due volte stellata maglia della Juventus ( Brady fu a malincuore dirottato alla Sampdoria, ove riempì, assieme all’arrivo di Trevor Francis, una delle disponibili caselle apposite), Passarella sbarcò a Firenze, Hansi Muller a Milano ( sponda nerazzurra ), Edinho ad Udine, Dirceu a Verona.

Un arricchimento tecnico che, assieme ad una generazione invidiabile di talenti italici (grazie al blocco tricolore campione del mondo la Juve volse alla conquista della totalità delle competizioni internazionali nella prima metà degli anni ottanta, la Roma di Conti e Falcao firmò il momento più alto, seppur amaro, della propria storia continentale, altre società si apprestavano a vivere momenti esaltanti resi possibili dal maggior numero di posti disponibili, assegnati  attraverso la graduatoria nazionale ai nostri club una volta risalita la classifica del ranking), determinò la definitiva conclamazione dell’appellativo più nobile a livello globale.

Cerezo, Zico, Schachner, Kieft, Diaz si aggiunsero ai campioni già presenti. Nonostante la bizzarra e quanto meno poco condivisibile decisione che avvolse il calcio italiano per un triennio, a partire dall’estate del 1984 (la Federcalcio impose alle compagini nostrane, ad esclusione delle neopromosse,  l’impossibilità di ingaggiare calciatori stranieri provenienti da campionati esteri),  i dirigenti dei nostri club seppero individuare quanto di meglio ci fosse in circolazione, acquisendo alcuni dei maggiori fuoriclasse dell’epoca: Diego Armando Maradona sbarcò a Napoli, Rummenigge passò all’Inter, Socrates venne acquistato dalla Fiorentina ed il connazionale Junior dal Torino, Souness vestì la maglia della Sampdoria, Stromberg quella dell’Atalanta, gli inglesi Hateley e Wilkins abbracciarono la causa del Milan ed il Verona, che al termine dell’annata si sarebbe sorprendentemente laureato campione d’Italia (testimoniando l’elevatissima qualità media del nostro calcio, con campioni di livello assoluto a nobilitare anche le maglie delle cosiddette provinciali, un aspetto che è realmente una vera e propria linea di demarcazione relativamente alla comparazione con l’attuale Premier League), elevò la propria caratura grazie agli innesti di Briegel ed Elkjaer.

Andava compiendosi un processo che avrebbe comportato il direzionare la luce dei riflettori del mondo sullo stivale: la Serie A destava non solo interesse, ma letteralmente invidia.

Al resto dell’Europa non restavano che le briciole e vincere il campionato italiano equivaleva, nelle sensazioni e nelle aspettative, nella gioia e nelle celebrazioni (che chi ha vissuto può tranquillamente confermare essere tali), a trionfare nella competizione più importante esistente, per alcuni aspetti superiore alla stessa conquista della cara, vecchia Coppa dei Campioni ( agognata non più del titolo patriottico ed in ogni caso non unico trofeo su cui basare la propria felicità agonistica).

L’obiettivo della Serie A rappresentava l’apice gerarchico dei desideri dei nostri club naturalmente sì direzionati alla gloria continentale ( in un’epoca romanticamente cadenzata da turni ad eliminazione diretta il cui pathos scandiva ritmicità emozionale notevolmente superiore agli asettici gironi inaugurali della modernità e, contemporaneamente, poteva comportare la possibilità di eliminazioni impreviste e imprevedibili, frutto di serate scandite dalla logica vorticosa dei gol siglati sul campo avversario), eppur non subliminalmente maggiormente affascinati, come inequivocabilmente accade oggi, dai titoli internazionali rispetto all’allora per antonomasia alloro , la laurea di campioni del campionato più “bello e difficile del mondo” ( inutile sottolineare che, in termini di competitività, il campionato racchiudeva un numero di compagini che, qualitativamente, non erano presenti nella contesa delle competizioni internazionali, principalmente in virtù di un formato differente che spediva, ad esempio, in Coppa dei Campioni esclusivamente la squadra campione in carica a livello nazionale).

Sostanzialmente nessuno, nonostante due fattori su cui è necessario successivamente soffermarsi per rimarcare ulteriormente la grandiosità dell’epoca, sfuggiva al fascino del calcio italiano: nessun profilo del panorama mondiale poteva definirsi un calciatore di livello planetario senza la controprova dell’essersi misurato sui nostri terreni, nei nostri stadi, sottoposto alle difficoltà ambientali, tecniche, squisitamente tattiche del calcio allora dominante.

Da Platini a Maradona, da Falcao a Van Basten, da Zico a Gullit, sino a Careca, Matthaus, Rijkaard, Laudrup, Brehme, Voeller e Caniggia, per approdare ai fuoriclasse che hanno contraddistinto un dominio possibilmente ancor più magnificente, specie in ambito europeo, durante gli anni novanta (uno sconfinato elenco favorito dalla graduale liberalizzazione del tesseramento dei calciatori comunitari, in special modo successivamente alla sentenza Bosman, comprendente, fra gli altri, Savicevic, Batistuta, Papin, Francescoli, Taffarel, Aldair, Cafu, Branco, Dunga, Skuhravy, Ruben Sosa, Klinsmann, Kohler, Riedle, Asprilla,  Boban, Hagi, Balbo, Sensini, Bergkamp, Desailly, Boksic, Deschamps, Weah, Zanetti, Stoichkov, Seedorf, Rui Costa, Zamorano, Djorkaeff, Jugovic, Davids, Zidane, Ronaldo, Nedved, Thuram, Crespo, Bierhoff, Recoba, Veron, Salas, Shevchenko, fino ai neonati “duemila” Trezeguet, Kakà, Ibrahimovic, Adriano, Rivaldo, Stam e qui mi impongo di fermarmi al fin di non tramutare il concetto in catalogazione), tutti i migliori giocatori del pianeta ardevano dal desiderio di approdare nel nostro campionato, indipendentemente dalla destinazione: Elkjaer e Briegel a Verona, Diaz ad Avellino, niente poco di meno che Zico ( per alcuni il migliore dopo Diego ) ad Udine e millanta altri esempi, furono possibili per la straordinaria, irripetibile, inarrivabile eccezionalità e competitività di un torneo che, all’inizio degli anni novanta, spingeva Hagi a vestire la maglia del Brescia quale interposta parentesi fra le esperienze con Real Madrid e Barcellona, Martin Vazquez ad abbandonare il Real per approdare al Torino, Detari vestire la maglia del dell’Ancona, Stoichkov lasciare il Barcellona da pallone d’oro in carica per sposare la causa del Parma, Taffarel difendere i pali della Reggiana e avere come compagno di squadra Futre, fra i principali talenti del panorama europeo.

No, nulla di tutto questo è sin ora accaduto Oltremanica e se si considera (come preliminarmente anticipato oggetto di duplice analisi da rimarcare) che nel primo dei due decenni in esame il limite relativo al tesseramento di calciatori stranieri ha impedito che realmente tutti i fuoriclasse approdassero nel nostro calcio ( la riapertura delle frontiere avvenne nel 1980 con l’esclusiva possibilità di tesserare un solo giocatore, il secondo tesseramento venne liberalizzato due anni più tardi e solo nel 1988, in coincidenza con l’allargamento della Serie A a 18 squadre, fu possibile tesserare in rosa tre calciatori non indigeni, condizione che perdurò sino all’inizio degli anni novanta durante i quali, pur potendo annoverare fra le proprie fila più stranieri, era consentito esclusivamente schierarne tre in campo), la magnificenza raggiunta acquisisce valore maggiore rispetto all’era in cui la Premier League ( che ha avuto l’indiscutibile merito di sorgere e fondare la propria leadership allorquando il confronto con l’Italia era letteralmente improponibile, grazie ad indiscutibili e visionarie capacità manageriali e gestionali) ha potuto agguantare  senza limiti regolamentari e a suon di milioni molti dei talenti più importanti.

Ad uno sguardo sommario, probabilmente, al di fuori degli italici confini, soltanto Hugo Sanchez, Butragueno, Giresse, Lineker, Keegan negli anni ottanta e pochissimi altri successivamente ( Romario su tutti) avrebbero potuto essere considerati meritevoli di scalzare alcuni fra i rappresentanti sbarcati nel nostro calcio.

Un aspetto che, considerando altresì, logicamente, la pur sempre presente nobiltà continentale rappresentata da quelle società che forzatamente, in ogni caso,  dovevano  essere composte da elementi di rilievo, ridefinisce maggiormente l’eccezionale livello del nostro torneo dell’epoca: basti pensare, per fare un esempio, che i tre calciatori stranieri del Verona, con l’obiettivo della salvezza, nella stagione 1988-89 erano Caniggia, Troglio e Berthold, tutti presenti l’anno seguente nell’atto conclusivo del campionato del mondo con le casacche di Germania ed Argentina ( con Lorenzo, difensore del Bari, pressoché a posteriori un perfetto sconosciuto, titolare nell’albiceleste).

Bisogna aggiungere che molti dei fuoriclasse ammirati in Italia durante gli anni ottanta e novanta rappresentano buona parte dei migliori giocatori mai visti in un secolo e mezzo di football; la straordinaria concentrazione di elementi di livello assoluto in un unico campionato, impreziosito da una qualità autoctona impressionante, fa della Serie A del tempo il miglior volto di sempre del calcio globalmente inteso.

Le epopee della Juve trapattoniana, del Milan di Sacchi prima e Capello poi, i successi continentali di Napoli, Sampdoria, Parma e Lazio, quelli mancati di Fiorentina, Roma e Torino,  il tramutarsi della Coppa UEFA praticamente in una sorta di coppa nazionale ( otto titoli e dieci finali fra il 1989 ed il 1999 con quattro atti conclusivi esclusivamente caratterizzati da formazioni del nostro movimento),  le nove finali di Coppa dei Campioni di Milan, Juventus e Sampdoria fra il 1989 ed il 1998, impianti tattici nettamente più evoluti rispetto al resto d’Europa, sono tutti elementi inequivocabili che concorrono a suggellare un predominio unico ed indiscutibile.

Se è vero che i club inglesi hanno anch’essi dalla loro ottimi risultati in campo europeo nell’ultimo decennio, è contemporaneamente vero, però, che il meglio del calcio più recente non ha investito il football britannico: le auliche versioni di Barcellona e Real Madrid ( otto Champions League complessive in quattordici edizioni ) hanno contribuito ad annullare in partenza un ipotetico predominio anglosassone; la quasi totalità dei fuoriclasse più emblematici dell’epoca attuale ( da Messi ad Iniesta, da Pirlo a Buffon, da Neymar a Mbappè, da Piquè a Kroos, da Marcelo a Sergio Ramos, da Xavi a Busquets, da Benzema a Lewandowski, da Dani Alves a Neuer, limitando addirittura il raggio d’azione all’ultimo decennio, senza dunque citare anche i vari Zidane, Ronaldinho, Ronaldo…) non ha militato neppure per una sola stagione nel campionato ritenuto più importante: un ossimoro se si considera il parallelismo con l’Eldorado italico del secolo scorso, per l’aggiunta in un’epoca in cui i club, in virtù di un calendario meno fitto (oltre alle limitazioni vigenti sino alla metà degli anni novanta, come abbiamo avuto modo di sottolineare, relativamente al tesseramento e al conseguente schieramento libero dei calciatori)  non avevano la necessità di mettere sotto contratto un numero elevato di elementi altamente competitivi; le rose erano infatti ridotte e composte da diciotto componenti ( con l’aggiunta di alcuni “primavera”).

Non vi era la necessità di annoverare molte alternative, si giocava di meno e meno si aveva bisogno di rimpiazzare i giocatori principali con elementi, nel limite del possibile, loro accostabili: nonostante ciò, in definitiva, con più “paletti” limitanti e assenza di “megalomania” numerica (quindi sottintendendo, con le condizioni attuali e più favorevoli, che il livello medio avrebbe addirittura potuto essere più elevato), la Serie A ha comunque raggiunto vette che non sono state bissate.

Il calcio britannico ha, ad un’analisi attenta, voragini concettuali ( su tutte la mancata militanza in Premier di molti fra gli elementi più forti degli ultimi lustri) che ne determinano uno status subalterno nella storia: pur mutando i tratti storicamente propri grazie alle migliorie stilistiche e di pensiero dei più quotati manager mondiali, il movimento più ricco del pianeta ( che ha conservato, in ogni caso, la propria essenza volta all’inscindibile binomio fra maglia e territorio, anima rude e al contempo leale, voglia di primeggiare entusiasmando agonisticamente le folle ) necessita di blasone e spessore più sostanziosi ed evidenti per poter essere accostato al periodo d’oro del calcio italiano.

BIO: ANDREA FIORE, con DIEGO DE ROSIS, gestisce la pagina INSTAGRAM @viaggionelcalcio.

3 Responses

  1. Buongiorno, vorrei aggiungere un ulteriore spunto secondo me molto importante alla sua perfetta analisi.
    Secondo il mio parere non c’è proprio confronto con la Premier ,perché oltre il numero di fuoriclasse stranieri che lei ha elencato presenti in Italia negli anni 80/90 e primi anni 2000, non dobbiamo dimenticare il livello dei calciatori italiani rispetto a quelli inglesi .In 7 mondiali dal 1982 al 2006 ,l’Italia vinse il mondiale 2 volte ,un secondo posto ,un terzo,un eliminazione ai rigori con la Francia futura campione del mondo ,un furto con la Corea e un solo fallimento, nel mondiale in Messico del 1986,percorso che l’Inghilterra si può solo sognare.
    Aggiungo, ,per avvalorare la sua tesi,che secondo me dall’1987 al 1991 era più facile vincere la Coppa dei Campioni (io sono Milanista) che lo scudetto .
    Il Milan di Sacchi in 3 partecipazioni vinse due Coppe dei Campioni ,in campionato vinse solo 1 scudetto su 4
    I rivali erano di ben altro livello rispetto all’Europa :il Napoli di Maradona,Careca Giordano,l’Inter del record dei 58 punti dei tedeschi ,la Sampdoria di Vialli ,Mancini …
    Cordialmente
    Fabrizio Del Bono

    1. Il suo è un intervento doverosamente necessario e altamente competente. Grazie per i complimenti, è sempre un piacere essere letti da persone del suo calibro e conseguentemente interfacciarsi.

  2. Vero, la Nazionale andava ai mondiali, dove batteva il Brasile più forte di sempre e lo vinceva, e lasciava a casa Beccalossi e il due volte capocannoniere Pruzzo. E poi i portieri… metà meritavano la maglia della Nazionale

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