ALLENATORE O COACH? E’ SOLO UNA DIFFERENZA DI TERMINI O SONO DUE MONDI DIVERSI?

“La via della conoscenza è lastricata da infiniti dubbi” è un mantra che ormai ho inciso nel mio dna e che scrivo spesso a chiusura di molti post della pagina Facebook della AMC FOOTBALL ACADEMY di cui sono fondatore.

Uno dei molti dubbi, che sono per me la base della EVOLUZIONE che deve spingere ogni essere umano ad essere, anche in maniera infinitesimale, ogni giorno migliore di quello precedente, è quello relativo alla differenza tra ALLENATORE e COACH.

Ormai, da decine di anni, nel calcio l’allenatore viene identificato con il termine inglese MISTER, la cui traduzione, cosa curiosa, non ha nulla a che fare con il calcio, né con lo sport in generale, stando a significare SIGNORE.

Con ogni probabilità i primi calciatori inglesi, alla fine del XVII secolo, chiamavano il loro primordiale allenatore MISTER, ossia SIGNORE, in senso di rispetto gerarchico, come avviene, ancora oggi, in seno agli ordini militari.

La leggenda narra che in Italia si sia assunto il termine mister perché nel 1912 l’inglese William Garbutt, divenne l’allenatore del Genoa e i giocatori iniziarono a chiamarlo “mister” mutuando, in tutto e per tutto, uso e costumi anglosassoni.

La traduzione corretta del termine allenatore, sarebbe trainer, dal verbo to train, allenare.

Altri sport, soprattutto il basket NBA o il Football americano non chiamano l’allenatore “trainer”, che sarebbe la corretta traduzione semantica del sostantivo allenatore, ma lo chiamano Coach.

Mi sono chiesto se fosse solo una mera questione linguistica o se ci fosse altro.

“To coach” in inglese non ha solamente il significato di allenare, ma anche carrozza/vettura, richiamando quindi contemporaneamente diversi aspetti: sia quello più strettamente riferito all’allenamento, sia invece quello di viaggio, percorso e accompagnamento da un luogo di partenza ad un altro di arrivo.

Qui iniziamo ad entrare dentro il pensiero e la riflessione, per me fondamentale, che sta alla base di questa analisi.

Se leggessimo le due traduzioni inglese/italiano, trainer e coach ci potrebbero apparire sinonimi, ma invece non lo sono affatto.

Sono due mondi interiori molto differenti. Chi allena, qualsiasi sport, ma in particolar modo gli sport di squadra, deve avere dentro un “fuoco”, una vocazione, che qui cercheremo di capire, di analizzare e di valorizzare.

Oggi si fa un grande uso del termine coach, non strettamente legato allo sport, ma strettamente legato al lavoro sulla mente, al lavoro sulla sfera personale.

Il training è un “percorso pratico”. Passare dallo  stato del non saper fare qualcosa, al saperlo fare, attraverso la pratica (allenamento) e agli insegnamenti pratici del trainer.  Un qualcosa di meccanico. Acquisisco una conoscenza pratica che con la pratica stessa diventerà una abilità che potrò utilizzare nella performance.

Il coaching è qualcosa che riguarda invece la sfera personale, non strettamente legata alle capacità/abilità, ma che indirettamente può aumentare, esponenzialmente, le stesse. Possiamo ancora rilevare che il trainer insegna cose nuove, il coach non per forza, anzi lavora su questioni psicologiche per migliorare ed elevare le competenze già acquisite con le conoscenze.

 Le origini del Coaching possono essere ritrovate addirittura nell’antica Grecia, ad Atene nella figura del filosofo Socrate. Una delle sue affermazioni più famose fu “So di non sapere” (concetto alla base della “docta ignorantia”) che formulò in un momento terribile della sua esistenza, ovvero prima della sua condanna a morte.

 Socrate interrogava gli altri con delle domande, dialogando con essi e stimolando i suoi interlocutori, senza mai fornire però risposte preconfezionate. Egli affermava “..da me non hanno mai imparato nulla, ma sono loro, che, da se stessi, scoprono e generano molte belle cose”.

Questa è la vera base della “maieutica” socratica ovvero “l’arte che mette in grado l’allievo tramite il dialogo di acquisire progressiva consapevolezza della verità che è dentro di lui” (dal vocabolario Zingarelli della lingua italiana).

 Il maestro in questo modo diventa in realtà il primo discepolo del suo allievo: avviene quindi un vero e proprio ribaltamento del rapporto. Il modo di relazionarsi di Socrate con i suoi discepoli era davvero rivoluzionario, aiutava gli altri a tirare fuori la loro conoscenze.

Ecco quindi che mi si apre nella mente immediatamente una finestra, un parallelismo con l’immenso Michelangelo che, scolpendo una delle opere più incredibili della storia dell’umanità, il David, disse: Ogni blocco di pietra ha una statua dentro di sé ed è compito dello scultore scoprirla” .

Seguendo questo percorso, questo ragionamento giungo quindi ad accostare la figura di Socrate a quella di un Coach professionista: egli accompagnava, stimolava con le domande efficaci le persone a trovare la propria strada, la propria verità, le proprie risposte e risorse interne, in un viaggio di scoperta, che inevitabilmente portava con sé anche una nuova, profonda consapevolezza.

Il compito di un allenatore, oggi, è sempre più complesso (badate bene alla differenza con complicato, spesso erroneamente vengono considerati sinonimi e non lo sono affatto!), è un mondo fatto di tanti mondi, ciascuno facente parte di una specifica conoscenza.

In una strada lastricata di meravigliosi dubbi, una delle poche certezze indissolubili è che quello che noi chiamiamo comunemente, scopriremo forse erroneamente, allenatore deve accompagnare il giocatore alla scoperta del gioco stesso.

Il coach dovrà avere quindi una visione prospettica, andrà quindi oltre gli aspetti condizionali, tattici e tecnici per agevolare il giocatore a trovare la conoscenza profonda del gioco, passando, inevitabilmente, attraverso il suo iniziale smarrimento.

Nel presentare la METODOLOGIA AMC FOOTBALL ACADEMY nei miei corsi parto sempre dal metodo, che come abbiamo visto in un mio precedente articolo e in altri articoli del blog, ha origine dal greco (quanto erano bravi a spiegare le cose, mamma mia !) μέϑοδος , «ricerca, indagine, investigazione», e anche «il modo della ricerca», composto di μετα- che include qui l’idea del perseguire, del tener dietro, e ὁδός «via», quindi, letteralmente «l’andar dietro; via per giungere a un determinato luogo o scopo.

Il metodo sono le fondamenta della metodologia. Mentre la metodologia stessa è un fiume in divenire, il suo corso è inarrestabile e noi non possiamo, se siamo evoluti, che seguirlo (la maggior parte si illude di fermarlo costruendo una diga), il metodo ha un processo di evoluzione più lento, che non vuol dire che si fermerà allo status quo  odierno, ma, semplicemente, basandosi su scoperte scientifiche, relative alla capacità e alla modalità di apprendimento (esterne al calcio o allo sport in generale, ma relative al cervello, all’ambiente in cui è immerso il soggetto e alle capacità emotive ed emozionali) avrà un cambiamento più lento, di cui, comunque, dovremo tener conto quando e se avverrà, perchè anche una minima nuova scoperta potrebbe costringerci a cambiare in modo radicale aspetti significativi della METODOLOGIA.

Quando parliamo di CONOSCENZE e COMPETENZE relative ad un coach del calcio (saranno identiche negli altri sport), dobbiamo assolutamente pensare anche alla PSICOLOGIA e alla PEDAGOGIA.

Il nostro rapporto quotidiano è con ESSERI UMANI, che siano altri 80 cm o 180 cm, con le loro unicità, i loro punti di forza, ma soprattutto le loro fragilità, in particolar modo quelle più nascoste (spesso volutamente nascoste) che sono dietro ad atteggiamenti quasi sempre opposti.

Siamo nell’era della standardizzazione e del qualunquismo fatto dogma assoluto di vita.

Noi dobbiamo, decisamente, andare contro tendenza. Ho fatto dell’andare in direzione ostinata e contraria uno stile di vita, perchè quasi sempre la direzione in cui va la massa non è quella pensata e voluta, ma è quella imposta. Il “si è sempre fatto così” penso sia la morte mentale dell’essere, che smette di pensare, di andare in profondità, di interrogarsi quotidianamente, di mettersi in discussione e segue, inerme ed inerte, la volontà non sua e di non si sa nemmeno chi.

Ecco quindi che nel concetto di coach, davvero complesso, risiede questa innata voglia di non omologazione, bensì di specificità e di unicità.

A questo punto devo fare un passo indietro di molti secoli e arrivare ad Aristotele.

In molti vi chiederete cosa abbia a che fare Aristotele con allenatore o coach.

Senza saperlo invece ancora una volta sarà la filosofia a darci quelle risposte necessarie a proseguire il nostro cammino di crescita. La nostra continua e costante evoluzione.

Non siamo ancora farfalla, forse non lo diventeremo mai, ma siamo un bellissimo bruco.

Aristotele rimanda continuamente a quei dati ricavabili dall’esperienza concreta, che Platone tanto fermamente disdegnava a vantaggio del mondo delle idee, che sulla base del suo ferreo dualismo vedeva ben distinto dalla realtà materiale.

Per Aristotele nella natura vivente è possibile riscontrare contemporaneamente quel che ogni essere è concretamente (l’atto realizzato) e quello che può, aspira a essere (la potenza, vista come aspirazione, progetto, modello). La scienza e, più in generale, la realtà sono dati da un continuo movimento tra i due stati che si concretizza nella trasformazione, che si specifica grazie a quattro tipi di cause: materiali (collegate alla materia), effettive (ciò che caratterizza il cambiamento da uno stato passato a quello presente), formali (la forma che una determinata cosa assume) e finali (la tensione a raggiungere il modello finale).

Come strumento per l’apprendere Aristotele utilizza la logica, intesa come metodologia del ragionamento, metodo per organizzare e strutturare i pensieri in discorsi. Qui è doveroso aprire una partentesi. Nella mia attività di formatore, all’inizio di questo meraviglioso percorso, ho organizzato e moderato tra pubblici e privati, non meno di cinquanta incontri (l’era moderna li chiama webinar, termine che mi provoca l’orticaria), molti dei quali in collaborazione o con la presenza di Filippo, deus ex machina di questo meraviglioso blog che spesse volte ormai ospita i miei lavori.

Ebbene, quasi tutti i messaggi che ricevevo finiti gli incontri, oltre ai complimenti che andavano oggettivamente oltre ai reali meriti, c’era la domanda “come si fa”, ossia mancava quel “mezzo invisibile” che trasformava la teoria in pratica, quel “mettere a terra (espressione che adoro presa in prestito da Filippo che a sua volta, come ama spesso ricordare è merito del collega Zanoli), quel rendere pratico un concetto elevato.

La logica aristotelica si basa su quelle che il filosofo definisce come categorie (il punto di vista generale che permette di formare un quadro generale della realtà, sono la sostanza, la qualità, la quantità, la relazione, il dove, il quando, la disposizione, l’avere, il fare, il subire).

Accanto alle categorie sono individuabili i concetti (che comprendono, al loro interno, più realtà accomunate da determinati aspetti) e il giudizio (dato dalla capacità di costruire in maniera corretta e veritiera una frase, attribuire quindi un predicato al soggetto rendendo esplicito un rapporto di comprensione o estensione tra concetti o individui).

L’unione di più giudizi, che porta alla metodologia argomentativa propria della logica dà luogo al sillogismo. Con sillogismo si intende un discorso consequenziale che parte da determinate premesse per arrivare a conclusioni logiche. Il sillogismo è formato da tre proposizioni, di cui due sono le premesse e una la conclusione.

Premessa: Ogni animale è mortale

Premessa: Ogni uomo è animale

Conclusione: Ogni uomo è mortale

Come si fa a stabilire che il sillogismo, ovvero la sua conclusione, sia valido?

E’ possibile grazie al cosiddetto termine medio (nel nostro caso “animale”) che unisce gli altri due termini (è contenuto in quello maggiore – “mortale” – e contiene quello minore “uomo”)

Oltre a occuparsi del ragionamento quale base dell’approccio alla comprensione del mondo, Aristotele, per primo, si occupò di altri argomenti collegati allo studio della mente, quali le sensazioni (da cui a suo parere ha origine tutta la vita psichica), la memoria (che permette di “fermare” la percezione), la fantasia (modalità di pensiero data dall’incontro della memoria e dell’intuizione) e le immagini mentali (senza le quali lo stesso pensiero non potrebbe esistere). A riassumere e contenere tutti questi procedimenti mentali, Aristotele pone il pensiero, che è caratteristica distintiva dell’uomo.

Lo scopo principale dell’educazione sarà dunque lo sviluppo della ragione.

Tutti questi elementi li vedo assolutamente e strettamente collegati al ruolo di un “allenatore che si sta trasformando in COACH”, ma proprio per la loro importanza e apparente estraneità nel vedere un collegamento stretto con il ruolo, mi vedo portato a capire ancora meglio il coach.

Durante la mia ricerca trovo quindi questa definizione, che alla luce di quanto scritto sopra, mi appare appropriata: “L’allenatore dà soluzioni momentanee, risposte, consiglia in base alle proprie credenze, suggerisce, fa fare agli altri le cose secondo la sua mappa del mondo, secondo la sua esperienza e secondo le sue convinzioni, esperto nella materia tecnica ma poco in altre direzioni“.

A differenza dell’allenatore il coach “è focalizzato sulle soluzioni e non sui problemi“.

Qui, necessariamente ed imprescindibilmente, entra in gioco l’empatia. Parola spesso usata, ancora maggiormente abusata.

Ma che cos’è l’empatia?

Il termine empatia deriva dal greco, en-pathos “sentire dentro” e consiste nel riconoscere le emozioni degli altri come se fossero proprie, calandosi nella realtà altrui per comprenderne punti di vista, pensieri, sentimenti, emozioni.

L’empatia è la capacità di “mettersi nei panni dell’altro” percependo, in questo modo, emozioni e pensieri. E’ l’abilità di vedere il mondo come lo vedono gli altri, essere non giudicanti, comprendere i sentimenti altrui mantenendoli però distinti dai propri (Morelli e Poli, 2020).

Si tratta di un’abilità sociale di fondamentale importanza e rappresenta uno degli strumenti di base di una comunicazione interpersonale efficace e gratificante.

Nelle relazioni interpersonali l’empatia è una delle principali porte d’accesso agli stati d’animo e in generale al mondo dell’altro. Grazie a essa si può non solo afferrare il senso di ciò che asserisce l’interlocutore, ma cogliere anche il significato più recondito psico-emotivo.

Questo ci consente di espandere la valenza del messaggio, cogliendo elementi che spesso vanno al di là del contenuto semantico della frase, esplicitandone la meta-comunicazione, cioè quella parte veramente significativa del messaggio, espressa dal linguaggio del corpo, che è possibile decodificare proprio grazie all’ascolto empatico.

Basterebbe questa magistrale spiegazione del sito stateofmind per capire che iniziamo ad avere ben chiaro che le competenze di un allenatore vanno, di moltissimo, oltre a quelle tattico-tecniche, che, anzi, vengono, di gran lunga in secondo piano.

Se non conosciamo la pedagogia, la psicologia emotiva, se non abbiamo idonei strumenti di comunicazione, in pratica se non abbiamo il passepartout per accedere a menti, cuori e anime dei nostri atleti, potremo essere anche i più preparati dal mero e sterile punto di vista sportivo, ma non arriveremo ai nostri giocatori e questa frustrazione, inevitabile, ci porterà a cadere nell’errore di essere autoritari e non autorevoli. In campo avremo soldati non sognatori liberi di vedere i limiti non come confini, bensì come orizzonti da attraversare.
Ecco quindi che due delle maggiori  doti del coach devono essere la  credibilità e l’autorevolezza e questa non arriva perché si è bravi a parlare e si usano le parole giuste, la si acquisisce solo se si sa essere un esempio costante e se si riesce a portare i propri atleti a fare tutto ciò che è loro utile per raggiungere il successo.

Un bravo coach deve essere proiettato più avanti dei suoi atleti, mostrando orizzonti più vasti, alzando l’asticella sempre, stimolando l’atleta a superare i suoi limiti, facendogli capire la differenza tra quelli oggettivi e quelli soggettivi.

Mi ha colpito una frase che sento mia e vera: “Il COACH pensa in modo straordinario e fa capire che se altri ci sono riusciti, è possibile!”

Ancora una volta dobbiamo andare oltre il concetto di vittoria fine a se stessa: quando vinciamo la vita ci premia, quando perdiamo la vita ci insegna.

Ecco quindi che per essere coach illuminati e di conseguenza illuminanti servirà avere cultura, intesa come conoscenze che, solo in apparenza, non hanno nulla a che fare con il calcio.

Andando quindi a riassumere il molto detto potremmo dire che l’Allenatore dà soluzioni, risposte, crea dipendenza, consiglia, suggerisce, fa fare agli altri le cose secondo il suo punto di vista, la sua esperienza e le sue convinzioni. Toglie la responsabilità perché dice cosa fare e come farlo e talvolta rischia di inibire la fantasia e la creatività dell’atleta o della squadra.

Il Coach fa domande per capire lo stato d’animo dell’atleta o delle squadra ed orienta le persone a diventare leader di se stessi e non seguaci, stimola la ricerca delle risorse interiori ed a trovare la verità e la motivazione a livello più profondo. Si focalizza sulla soluzione, vedendo l’atleta e la squadra nella performance migliore, ed indica la strada. Il Coach stimola a lavorare sull’identità, la fiducia e l’auto immagine della persona, aiuta a cercare obiettivi ed a come raggiungerli. A volte le soluzioni sono molto più semplici di quello che pensiamo.

Un coach ti aiuta a riconoscere le tue doti, le tue capacità, il tuo talento e individuati in modo chiaro questi elementi ti aiuta a svilupparli, a farli crescere, ad arrivare a livelli di eccellenza.

Ritorniamo prepotentemente a Michelangelo e a quando ci disse che la statua era già dentro il blocco di marmo, lui doveva solo tirarla fuori. Ecco che il coach deve tirare fuori il giocatore, aiutandolo e supportandolo nel suo percorso.

L’allenatore , è un esperto, conosce l’attività, programma gli allenamenti con soluzioni preimpostate sulle sue convinzioni, che hanno radici profonde sulla pratica da lui sviluppata. Il vissuto come punto di arrivo e partenza. Usa uno stile prescrittivo e direttivo. Fissa un suo obiettivo.

Il Coach opera più sulla sfera mentale, cognitiva ed emotiva. Il giocatore è il “centro” del suo progetto e la prestazione dello stesso passa, per forza di cose, attraverso un processo cognitivo e decisionale che ha come fattori determinanti quello emotivo e quello emozionale.

Ecco quindi che emerge PREPOTENTEMENTE uno dei tre pilastri della METODOLOGIA AMC FOOTBALL ACADEMY, ossia l’apprendimento emotivo.

Personalmente ho avuto l’immensa fortuna che un allenatore, con il quale mi confrontai nel periodo in cui stava nascendo in me l’idea di dar vita ad una scuola di formazione ed approfondimento della metodologia, mi fece “conoscere” la Professoressa Daniela Lucangeli. Venni “illuminato sulla mia di Damasco”. Iniziai a studiare, a comprare libri, ad ascoltare incontri. Capii quanto fosse determinante questo aspetto per trasmettere al meglio, per capire l’allievo, sia esso uno studente di scuola, sia esso un piccolo giocatore, un giocatore adolescente o un giocatore adulto. Ognuno con le sue diversità. Ognuno con le sue specificità.

Mister Massimiliano Bellarte, un vero visionario, uno degli allenatori più importanti al mondo nel futsal, oggi commissario tecnico della Nazionale Italiana, definì benissimo il ruolo del Coach, ossia un “disegnatore di contesti”. Esattamente, il Coach deve capire le singolarità e favorire un ambiente di apprendimento altamente stimolante, motivante ed entusiasmante. Solo in questo modo i confini diventeranno orizzonti.

Lavorare con una METODOLOGIA che si basa ESCLUSIVAMENTE SULLA REALTA’ DEL GIOCO ci porta a NON POTERCI BASARE SUL VISSUTO perchè il gioco non è mai uguale, anche quando apparentemente lo appare (nello stesso fiume non scorre mai due volte la stessa acqua). E’ diverso per situazioni e soprattutto per interpreti. Non si può standardizzare. Occorre essere sartoriali, ogni allenamento deve essere studiato, quotidianamente, sulle esigenze e sulle caratteristiche dei propri giocatori (Non calciatori, ma giocatori. Non calciano, ma giocano, ossia usano la mente per rispondere alle esigenze del gioco, per risolvere i problemi che il gioco gli pone dinnanzi, per superare gli ostacoli che gli crea l’elemento fondamentale del gioco stesso, ossia l’avversario. Non sono quindi MERI ESECUTORI, ma sono RISOLUTORI ).

Credo che l’allenatore, oggi più che mai, alla luce dei molti studi, e dell’aver compreso come solo attraverso il gioco nel suo essere ludico e performante solo con giocatori capaci di leggerlo in corso di svolgimento e quindi essendo capaci di decisioni rapide, immediate ed efficaci, debba confluire all’interno del coach.

Esserne assorbito come figura. La componente tattico-tecnica di un allenatore, essere parte del mondo decisamente più ampio del coach, che ha compreso quanto sia importante l’aspetto sociale, relazionale ed emotivo.

Come ci ricorda il filosofo contemporaneo Edgar Morin “La capacità emozionale è indispensabile alla messa in opera di comportamenti razionali“.


  • BIO: Alessandro Mazzarello, è nato a Genova il 3 agosto del 1977.
  • Laureato in giurisprudenza. Di professione, da quattro anni, Docente Scolastico, dopo aver fatto per venti anni consulenza a privati ed imprese in campo finanziario e di strategie commerciali.
  • La sua vera e assoluta passione è, da sempre, il calcio. Per diciotto anni ha praticato il futsal a buoni livelli, dove ha avuto anche il doppio ruolo di allenatore – giocatore in serie C/1, perdendo la finale per l’accesso in serie B con una piccola realtà e dove ha anche allenato la Rappresentativa Ligure, portandola, unica volta nella storia, alle semifinali nazionali.
  • Smette di giocare, a trentacinque anni, in possesso della LICENZA UEFA B e LICENZA ALLENATORE CALCIO A 5, ha iniziato ad allenare nei settori giovanili, togliendosi, da subito, enormi soddisfazioni. Alcuni dei ragazzi che ha avuto la fortuna di allenare sono oggi dei professionisti o protagonisti assoluti nel campionato di serie D. Nei suoi anni da allenatore ha avuto modo di iniziare a sperimentare la sua metodologia, un misto tra artigiano nel suo laboratorio e alchimista. La più bella esperienza quella come Responsabile Tecnico, dove ha affinato quello che poi è diventato il suo presente e, ne è certo, sarà il suo futuro, il percorso di formazione e approfondimento metodologico con la AMC FOOTBALL ACADEMY.
  • AMC FOOTBALL ACADEMY nasce dopo tanto, molto studio che ha parallelamente portato avanti alla sperimentazione sul campo e grazie anche ad importanti collaborazioni e costanti e continui confronti con importanti esperti del settore. Ha deciso di studiare la realtà del gioco e la sua costante e continua evoluzione, partendo sempre dal perchè di un cosa.
  • Determinante la creazione della P&M COACHING e PM SOCCER LAB di cui è co-founder insieme al collega mister Pasquale Palermo. Insieme hanno organizzato più di trenta incontri di formazione on line, con, adggi, oltre duecentomila visualizzazioni.
  • Sono sempre più convinto che possedere una LICENZA UEFA, qualunque essa sia, debba essere un punto di partenza e non di arrivo.
  • Costanti aggiornamenti e approfondimenti sono la sola ed unica via per poter pensare di condividere delle conoscenze con i propri giocatori e con le proprie giocatrici.
  • Volersi sempre migliorare arricchendo il bagaglio delle conoscenze sia la sola ed unica strada per elevare il livello del proprio lavoro sul campo.

2 Responses

  1. Superlativo articolo Ale!!Per uno come me vecchiotto , e’ manna . Posso solo dire , nei lontani primi anni 70 , dove ho militato nelle giovanili del Milan , non erano permessi ne Mister e ne ,logicamente, Coach. Ma semplicemente PROF. PROF.Trapattoni , PROF Zagatti , PROF Galbiati , PROF.Trezzi ecc.
    Per noi erano Professori.
    Grazie Ale per l’articolo!!! Come canbiano i tempi!

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