CALCIO ITALIANO: LA GESTIONE DEI CLUB. RISULTATI COSTANTEMENTE IN PERDITA. DIFFICOLTÀ INSORMONTABILI O INCAPACITÀ DI ADATTAMENTO ALLE NORMALI REGOLE DI GESTIONE AZIENDALE? 2^ E ULTIMA PARTE.

2^ PARTE

Analizziamo dunque i dati di bilancio dei più importanti club Europei, per quanto disponibili e accorpabili, alla luce dell’evoluzione storica, cercando di sfatare i luoghi comuni ed analizzando nella maniera più obiettiva possibile, lo stato dei fatti e le prospettive di gestione più opportune e logiche per le società calcistiche italiane.

Precisiamo che mettiamo a confronto Milan e Juventus con i club europei e analizziamo a parte il caso Napoli, per una scelta strategica di gestione differente, che necessità una valutazione separata.

Primo luogo comune da sfatare è la rilevanza sull’incremento dei ricavi della proprietà dello stadio.

Se si analizzano i dati di bilancio si vede chiaramente che i ricavi da stadio 2022 sono uguali tra Milan e Juventus, mentre le differenze per gli altri club europei sono dovuti ai percorsi più lunghi, con più match giocati, nelle competizioni europee, quindi avere o non avere la proprietà dello stadio non è vero che incida radicalmente sull’incremento dei ricavi.

Perché allora si spinge così tanto per costruire gli stadi di proprietà? Illudendo l’opinione pubblica sull’incremento dei ricavi che porterà all’acquisto di campioni che aumenteranno la competitività della squadra?

La risposta è semplice e si chiama patrimonializzazione della società, se si chiarisce infatti che le proprietà dietro queste operazioni sono fondi, come nel caso del Milan, o investitori speculativi, come il caso della penultima proprietà Americana della Roma, è evidente che lo scopo è aumentare il valore del patrimonio della società per ottenere un prezzo molto più vantaggioso, in un eventuale rivendita.

Pensate al valore immobiliare di uno stadio a Milano, quanto spropositato potrà essere il valore da inserire a bilancio?

Secondo luogo comune da sfatare è l’enorme differenza dei ricavi da diritti televisivi in Europa.

I dati non dicono questo! il Liverpool fa storia a se ma perché ha un mercato internazionale di rivendita dei diritti, nettamente differente dagli altri.

Primo elemento oggettivo a discapito delle società italiane è il costo del personale, con un media ingaggi nettamente più bassa rispetto altri top club europei, il peso in bilancio è pari agli altri, ovvero una percentuale intorno al 50%, dimostrazione che il trattamento dei calciatori italiani alla stregua dei comuni dipendenti, con il quasi raddoppio del costo, penalizza in Italia le società calcistiche in maniera evidente.

Ma qual è la variabile che determina, alla stregua dell’enorme aumento di costi degli ultimi anni, la non competitività delle società italiane?

I dati non mentono, sono i ricavi commerciali!

Una voce di bilancio, però, ambigua: perché include valori molto differenti che derivano da strategie completamente diverse.

Abbiamo il già citato caso del PSG, moderno esempio del mecenatismo sportivo, dove, in questa voce, troviamo sponsorizzazioni di società collegate alla proprietà, con valori spropositati rispetto ad operazioni analoghe nel mercato, dunque un evidente escamotage di finanziamento indiretto del club, non per nulla oggetto di osservazione dei commissari UEFA per violazione del fair play finanziario.

Ma troviamo anche il Bayern Monaco che invece è l’esempio migliore di mantenimento della competitività sportiva, pur nell’ottica della copertura dei costi, tramite uno sviluppo dei ricavi in tutte le forme modernamente possibili.

Il mercato tedesco però ci dimostra, anche in altri ambiti economici, che è un ‘’unicum’’, per il protezionismo teutonico che dà, alle imprese tedesche, opportunità nel mercato nazionale che in Europa, non sono confrontabili.

Nel caso del Bayern, come i ricavi da match siano nettamente superiori ad altre competitors, a parità di condizioni, oppure come i ricavi da merchandising siano pari al Real Madrid, si spiega solo con i vantaggi che il mercato tedesco, per la maggiore disponibilità economica degli abitanti, offre solo alle imprese nazionali.

Le inglesi e le spagnole sembrano le società calcistiche da cui si deve imparare ma, mentre per il Real Madrid non è difficile pensare che il prestigio del brand di squadra, icona nel mondo, giustifichi un volume di ricavi commerciali TOP. Come siano arrivati a livello pari o superiori il Liverpool o il Manchester City, sarebbe da studiare attentamente.

Probabilmente le sponsorizzazioni e il merchandising hanno subito l’effetto positivo del volano della vendita dei diritti televisivi, conseguente ai risultati positivi degli ultimi anni.

E le società italiane dove si pongono in quest’ottica? E soprattutto quanto distanti sono dalla copertura dei costi e dalla competitività economica e sportiva con le grandi d’Europa?

I dati ci dicono che i quasi 450 milioni di fatturato della Juventus non bastano nè per l’uno nè per l’altro degli obiettivi.

Nonostante lo stadio di proprietà, infatti, la Juventus non è riuscita a competere con le grandi d’Europa per l’ingaggio di grandi giocatori.

L’essersi messa sullo stesso piano, con l’ingaggio di top player come Ronaldo e altri, l’ha portata al tracollo finanziario di oggi.

Il valore di fatturato che permetta la competitività economico-sportiva sembra essere i 600 milioni di fatturato e le società italiane sono ben distanti.

Il Milan, persegue la copertura dei costi ma con dei limiti ben precisi che minano la competitività sportiva, vedi i tanti giocatori persi per la non volontà di spingere gli ingaggi oltre la sostenibilità.

L’originalità manageriale sportiva, tramite un ottimo scouting, ha permesso il risultato sportivo dello scudetto 2021-2022 ma i dubbi che lo stesso metodo possa funzionare in ambito Europeo restano tanti.

Con questa strada, intrapresa oggi anche da Juventus e Inter, difficilmente si arriverà a competere con le grandi d’Europa, ma si potrà perseguire la competitività in Italia e la sopravvivenza del club.

Il Napoli, come detto, è un caso a parte perché, per storia ed ambiente, ha potuto perseguire la copertura dei costi tramite il player trading, caso difficilmente gestibile dalle altre big italiane.

Da anni infatti opera in questo senso, vedi sotto la voce risultato gestione economica dei calciatori che, di fatto, cambia in positivo il risultato di gestione finale.

*Fonte :Bilanci SSC Napoli Spa

Questa strategia, con l’ultimo mercato, ha compiuto il miracolo di massimizzare anche la competitività sportiva, con la probabile vittoria dello scudetto 2022-2023, dunque per la sostenibilità e una competitività sportiva circoscritta è del tutto rispettabile.

Il Player trading però, pur efficace per l’equilibrio economico-finanziario del club, non permetterà mai la crescita di competitività internazionale, perché basata sull’impoverimento tecnico del mercato nazionale a favore dei club compratori europei che monetizzano ed alimentano le entrate cannibalizzando però il livello tecnico delle nostre società calcistiche.

Le società italiane, dunque, hanno delle possibilità di evoluzione e di cambiamento, nel miglioramento dei ricavi commerciali, che permetta di non limitarsi alla copertura dei costi, ovvero di giocare in difesa, parzialmente o totalmente con il player trading, ma di far crescere le entrate per andare a competere con le più grandi d’Europa?

La risposta, dal mio punto di vista, è Si! Esiste uno step non ancora fatto nell’evoluzione al cambiamento nelle società di calcio italiane.

Infatti, nel nostro calcio non si è ancora imparato a ragionare come fanno tutte le imprese del mercato, drogati dai pensieri di privilegio e dai retaggi storici,  non abbiamo ancora pensato a cosa si può vendere con continuità tutti i giorni, a prescindere dalla prestazione sportiva, e a chi lo devono vendere.

Lo studio del bacino di utenza, ovvero dove vendere il proprio prodotto, è la base del marketing di ogni azienda e per le società calcistiche italiane è presto fatto, ovvero i propri tifosi.

Questi i dati 2022 sulla divisione dei tifosi in Italia:

-Juventus 8 milioni e 56mila

-Milan 4 milioni e 167mila

-inter 3 milioni e 900mila

-Napoli 2 milioni e 600 mila

-Roma 1 milione e 800mila

Per un totale di 24 milioni e 562 mila

*dati www.calcioefinanza.it

Un vantaggio per i club italiani, con il maggior bacino di utenza, è una distribuzione equilibrata su tutto il mercato interno, anomalia rispetto ai tifosi delle altre squadre europee, più concentrati nelle città di appartenenza, per motivi di campanilismo, nel caso tedesco e spagnolo, per tradizione, nel caso inglese, escludendo il Manchester United.

N.B. Chelsea e Liverpool sono seguiti in Scozia, un seguito televisivo non passionale

Il risultato dello studio del bacino di utenza non può essere, però, solo il merchandising, perché semplicistico e strettamente legato ai risultati sportivi.

Le società calcistiche italiane devono cominciare a pensare di avere a disposizione una sorta di filiali di vendita, distribuite su tutto il territorio nazionale, e cominciare a capire come possano sfruttare questo canale di vendita per alimentare i ricavi del club con continuità.

Questa sarebbe la risposta e il risultato di un evoluzione, rispetto alle mutazioni del mercato calcistico in Italia.

Ai Manager del calcio stà capire come la normalizzazione può essere una opportunità e, in alternativa, far spazio, nei club, a manager abituati a queste valutazioni perché consueti alle analisi della competitività quotidiana e non alle tutele di un mondo ‘’dorato’’ che non esiste più.

Concludo, infine, con la frase di Charles Darwin – “Non è la più forte delle specie che sopravvive, né la più intelligente, ma quella che si adatta meglio al cambiamento.”

Mi auguro che le società calcistiche italiane sappiano mutare il loro modo di fare gestione ordinaria, di fronte ai cambiamenti avvenuti, e sappiano diversificare le possibilità di produzione dei ricavi, studiando il loro bacino d’utenza, i loro clienti, in modo di proporre servizi day by day, a prescindere dalla gestione sportiva, cosa che fanno tutti i manager nell’economia aziendale nel mercato.

Ecco il processo che deve avvenire, il calcio italiano deve accettare la sua ‘’normalizzazione’’ economico finanziaria!

Grazie a Milan Night per l’immagine in prima pagina.

BIO: Paolo Giuseppe Cardillo, Manager, laureato in economia aziendale ed esperto in Marketing e Tecnica della pubblicità, nel mercato italiano ed internazionale ha operato nei più svariati settori, dalle materie prime, polvere di cacao e cioccolato, fino alla tecnologia ed elettronica estrema della videosorveglianza, passando dalla cantieristica ai metalli pregiati.
Oggi la sua passione è diventato il suo lavoro mettendo la sua esperienza a disposizione di calciatori ed addetti ai lavori

Una risposta

  1. Confesso ho fatto a suo tempo uno studio analitico sul calcio italiano, in particolare per le sette sorelle con i bilanci a partire dal 2001 o post fallimento. Poi, per l’insieme della Serie A dai bilancio del 2008 fino al 2012-13.

    Quindi, ero molto incuriosito ed ho letto con attenzione il tuo scritto. Voglio solo, al momento, soffermarmi su alcuni punti.

    Il primo è quello della bufala dello stadio di proprietà. Che lo stadio di proprietà possa portare dei vantaggi economici è possibile, ma non tali da far fare un salto di qualità determinante. Per questa mia posizione sono stato variamente bersagliato, ma nessuno ha saputo dirmi in che modo lo stadio di proprietà, senza gravare sulle tasche di chi lo frequenta, possa incidere molto più dello stadio comunale.

    Poi, in realtà, nel fare la storia dal dopo disastro di Superga, della gestione economica del calcio italiano, grosso modo, in linea con quanto da te scritto, individuo 4 periodi: quello ante riforma societaria del 1966; quello fino al 1981 abolizione del “vincolo a vita”; quello fino al 1992 in cui le carte si mescolano e si vedono più modelli vincenti (Roma, Verona, Napoli; Sampdoria tra le minori e modello Berlusconi tra le big) e, infine, quello della tv a pagamento. Quest’ultima non solo per gli abbonamenti, ma soprattutto per la diffusione nel mondo dei maggiori campionati di calcio.

    A proposito del modello Berlusconi, in realtà, lui crea un meccanismo virtuoso che parte dal “dream team” alimentato economicamente da Mediaset, ma che se ne giova quest’ultima per il ritorno di immagine e notevole incremento di spettatori televisivi, oltre che di uomo vincente per Berlusconi.

    Il modello Ferlaino, molto più semplice e meno complesso ma efficace. “Se porto Maradona a Napoli riempio lo stadio ogni domenica e a prezzi più alti”, In questo modo mi ripago dei costi di acquisto e gestione Maradona e squadra.

    Poi, vi è il periodo dei diritti televisivi, che hanno sconvolto il mondo del calcio ed in particolare quello italiano.

    Sulla questione della Bosman hai ragione, ma io sono portato a credere che sia stato più sconvolgente l’abolizione dei “cartellini a vita”.

    Sempre come pillole di intervento, ritengo che, come mi puoi insegnare, gli investitori che amano il rischio si buttano sulle situazioni che costano poco ma sono potenzialmente molto redditizie. Per questo motivo credo che abbiano dapprima abbordato il calcio inglese, quando il nostrano mieteva successi in continuo.

    Infine, per i bacini, credo che oggi conti molto più quello internazionale, rispetto a quello italiano. Questo, spiegherebbe perchè alcune società sono notevolmente avvantaggiate sulle tre big italiane. La vendita dei diritti televisivi del calcio inglese e delle coppe europee, ha creato tifosi in un mondo forse poco conoscitore (prima dell’avvento della pay tv)del calcio europeo (Asia soprattutto), noi ci siamo trovati fuori nel momento migliore.

    Concordo perfettamente che oggi sia la “commercializzazione in senso ampio” a generare i maggiori differenziali tra le squadre big internazionali.

    Sto scrivendo a volo, quindi perdonami se non porto dati concreti, che comunque sul calcio internazionale, sono difficili da procurarsi, soprattutto quelli sul bacino di utenza.

    Un saluto.

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