“IL NUMERO 10”: LA POESIA DEL CALCIO IN ITALIA, EUROPA, SUDAMERICA E… 5^ E ULTIMA PARTE.

Il viaggio tra i meandri del percorso evolutivo della maglia numero 10 è giunto sul finire ma, per far sì che il numero della poesia ne esca devotamente onorato, è necessario dedicare quest’ultima sezione ai tre protagonisti che, più di ogni altro, vanno considerati i riferimenti assoluti dell’arte pedatoria.

Uno è ancora in attività, gli altri due portano con sé il dono dell’immortalità.

Nessuno osi porli a confronto. Rappresentano tipologie differenti di calciatore, non solo per caratteristiche di campo ma anche per carattere, attitudine, atteggiamento e stile di vita.

Altrettanto velleitario risulterebbe il tentativo di vergare qualcosa di nuovo, mai scritto prima, atto ad esaltarne la carriera e le gesta sul campo da gioco.

Una cosa dev’esser chiara: ci siamo concentrati sui numeri 10 per amore del bello, della fantasia e della poesia.

Ma nessun singolo sarebbe stato in grado di determinare, come ha fatto, senza l’ausilio di una squadra. Anche al loro massimo apice, tutti i protagonisti citati hanno sempre potuto contare su collettivi e compagni che li hanno sostenuti, difesi ed esaltati a seconda dei momenti e delle situazioni.

E di sicuro han tratto giovamento dall’organizzazione offerta dai tecnici, con i quali talvolta sono entrati in conflitto, salvo riappacificarsi in molti casi al termine della carriera, una volta resisi conto che la giocata del singolo è utile solo se inserita nella complessità di uno sport di squadra.

Nel nostro excursus calcistico abbiamo scomodato la moda per descrivere i tratti sartoriali del calcio di Antognoni e Mancini, portando in passerella l’eleganza corporea di Bergkamp e Pastore.

Ci siamo dati alla musica nel citare il violino di Rui Costa, gli assoli jazz di Seedorf e l’arpa di Modric, affidandoli al direttore d’orchestra per eccellenza:  Zinedine Zidane.

Per Rivera e Platini ci siamo appesi al genio calcistico mentre con Riquelme, Baggio e Zico abbiamo personificato l’attrezzo, ovvero il pallone, rendendolo parte di un rapporto compulsivo che solo il calciatore di classe può porre in essere.

L’immenso carisma di figure come Hagi, Valderrama e Stojkovic ci ha traviato sulla via del colpo ad effetto ma con Kakà e Snejder siamo rientrati sulla strada della giocata di classe, per quanto mai banale, funzionale all’utilità, scoprendo nel percorso come l’espressione dell’arte circense, se posta in essere con la classe di Ronaldinho, possa risultare dirimente nel calcio moderno.

Quando ci siamo approcciati a Cruijff l’aspetto terreno ha cominciato a starci stretto, immersi com’eravamo nelle profezie di un visionario.

Ciò nonostante, non finiremo mai di ribadire il concetto, sviluppato in questo blog all’interno del dibattito sulla qualità, di “corrispondenza biunivoca”. Quanto più il campione si dimostra altruista e generoso, tanto più la collettività è disposta a sostenerlo e porlo in condizione di “fare la differenza”.

L’elenco dei grandissimi di ogni tempo, tuttavia, non si esaurisce né con i 10 né con i fantasisti.

Gente come Beckenbauer, Maldini, Van Basten, Cristiano Ronaldo, Buffon, Zoff, Keegan, Best, Neeskens, Xavi, Falcao, Muller, Socrates, Boniek, Iniesta, Rummenigge, Matthaus, Charlton, Moore, Ronaldo, Maier, Pirlo, Robben, solo per fare degli esempi, ha tutto il diritto d’esser inserita nell’elenco dei grandi.

Dovendo, tuttavia, riempire i gradini del podio all time e chiedendo scusa ad Alfredo Di Stefano che,

tra coloro che non vi salgono, è quello maggiormente legittimato ad avanzare rimostranze, due posti su tre sono ad appannaggio di calciatori argentini, con il terzo colorato di verdeoro.

Già questa situazione ci consegna un elemento importante. 

Il calcio argentino ha dato i natali ad alcuni tra i fantasisti più grandi di sempre.

Abbiamo già avuto modo di definire le peculiarità dei calciofili di un paese che, tra rivalità storiche e tradizioni intoccabili, erge a propri beniamini calciatori di assoluto talento, cresciuti e plasmati in un contesto in cui passione, grinta, emotività ed alternanza di stati d’animo li rendono eroi popolari se non, come nel caso dei prossimi citati, leggende assolute.

Il rapporto con cui gli appassionati argentini si legano alle stelle del calcio è completamente diverso rispetto a quanto accade ad altre latitudini. L’ammirazione per le gesta sportive è solo uno degli elementi che lega la gente agli dei del pallone.

Nel rapporto tra il tifoso ed il campione affermato ballano altri elementi tra cui l’idea del riscatto (di chi è partito da ambienti poveri e popolari), il senso di appartenenza al club di origine (che non viene meno nemmeno quando i calciatori si trasferiscono all’estero) e l’orgoglio di un popolo, troppe volte sopraffatto da eventi storico-sociali-economici, con cui risulta impossibile negoziare quando si parla di pallone.

Si potrà ricordare ad un argentino che il football lo hanno inventato gli inglesi, gli si potrà raccontare che le squadre che ne han fatto la storia non erano argentine, gli si potrà imporre come fatto storico la circostanza secondo cui le rivoluzioni più importanti dal punto di vista tattico-strategico sono avvenute nel contesto europeo… A tutte queste considerazioni vi risponderà che il calcio è materia del suo paese e citerà i nomi di Alfredo Di Stefano, Diego Armando Maradona e Lionel Messi quali esponenti massimi di una dottrina che trae origine dalla passione popolare per svilupparsi dalle strade di quartiere ai palcoscenici più prestigiosi.

Qualche parallelo più a nord, invece, vi faranno pesare il numero di titoli mondiali vinti, l’incredibile quantità di numeri dieci sfornati nel corso della storia e l’enorme fascino che il calcio brasiliano, nonostante il passare degli anni, continua ad emanare.

L’approccio verso il football dei fantasisti brasiliani risulta più propenso al divertimento, alla giocata, al sorriso, ancorché supportato da una commistione di doti e capacità motorie propria degli abitanti di un paese che sconta un numero plurimo di etnie.

Avviciniamoci al podio del 10 con circospezione, pertanto. Consci che il tentativo di stabilire chi sia  il più grande rappresenti un esercizio inconferente, oltre che improponibile, in considerazione della diversità di epoca, di regolamento, di evoluzione del gioco e di preparazione atletica in cui i nostri tre eroi si sono mostrati.

Nel caso di Lionel Andres Messi Cuccittini il tempo del magistero non si è ancora concluso.

Laureandosi di recente campione del mondo, dopo qualche stagione in cui pareva avviato ad un naturale declino, ha posto il sigillo ad una carriera dal palmares inarrivabile.

Siamo consci di come il numero di titoli e di vittorie non possa, e non debba, risultare il principale parametro per classificare un calciatore ma, nel suo caso, è impossibile rimanere indifferenti dinanzi alla quantità e al prestigio dei trionfi.

Di tanti 10 del passato abbiamo esaltato il controllo di palla. Nel suo caso, parlare di controllo è riduttivo.

Il suo non è un controllo, è un dominio della palla nel senso letterale del termine.

Messi è padrone assoluto di ogni movimento della sfera. Un conto è descrivere l’abilità di un calciatore nel controllare il cuoio senza perdere tempi di gioco, altro è rimanere a bocca aperta nell’ammirare la pulce che accelera il passo prima di impossessarsi del pallone. Per lui non esiste il rimbalzo imprevisto a causa del terreno di gioco, non esiste alcuna variabile che possa impedirgli di controllare il pallone a proprio piacimento. Più la palla scorre veloce e più lui tende a controllarla. Più i movimenti della sfera tendono all’irregolare e più lui l’addomestica con naturalezza.

Abbiamo evidenziato come altri campioni siano soliti usare l’esterno per aperture a tutto campo o per effettuare traversoni e lanci millimetrici dopo una serie di tocchi con l’interno piede. Leo Messi tende all’esatto contrario. E’ solito spostare la palla durante le sue avanzate con piccoli tocchi di esterno per poi effettuare il passaggio con l’interno. Il tutto rigorosamente di sinistro.

Nella nostra “Treccani dei piedi sinistri”, dopo aver definito chirurgico il sinistro di Puskas e terrificante quello di Rivelino, abbiamo utilizzato il termine dirompente per Passarella ed iperbolico per Mihajlovic, non prima di aver catalogato quale perfido il mancino di Robben.

Per il piede sinistro di Messi l’aggettivo scelto è “telecomandato”.

A vederlo giocare si ha la sensazione di essere in presenza di un collegamento sovrannaturale che ne guida i movimenti, all’apparenza predefiniti, spesso illeggibili per i difensori. Messi ha sempre un tempo di gioco diverso. Nelle occasioni in cui pare sul punto d’essere anticipato, sposta il pallone dalla portata dell’avversario, consegnando quest’ultimo ad un brutta figura. Quando, viceversa, sembra non poter fruire di spiragli o linee di passaggio, inventa spazi dal nulla.

La sua predilezione a stazionare nella zona di centro destra lo rende condizionante in seno al sistema di gioco ma, grazie alla capacità di muoversi in modo eccellente sia in orizzontale che in verticale, è fonte continua di tagli e movimenti atti a sorprendere le difese avversarie.

Nelle situazioni in cui non attacca direttamente la porta delinea traiettorie alla ricerca dei movimenti dei compagni, che pesca facendo leva su un radar, dal raggio d’azione ad angolo retto, sempre attivo nel corso della gara.

Quando è lui a concludere a rete il campionario varia dal colpo di biliardo al tiro a giro, dal pallonetto al collo piede, senza possibilità di scampo per il malcapitato portiere.

Considerata la bassa statura, predilige giocare palla a terra in ossequio ai principi blaugrana salvo rare occasioni, tra cui la finale di Champions League 2009, in cui suggella la vittoria del Barcellona siglando di testa la rete del 2-0.

Nonostante negli ultimi anni, complice il minor dinamismo, si sia ritagliato un ruolo di prim’ordine da uomo assist, Leo Messi è da considerarsi a tutti gli effetti un 10 con caratteristiche da attaccante, decisivo negli ultimi trenta metri e letale con la palla al piede.

La parte importante della carriera l’ha riservata al Barcellona, club che lo ha cresciuto sin dall’età adolescenziale e che lo ha eretto a simbolo di una cultura canterana secondo cui “mentre il Real acquista i Palloni d’Oro, il Barcellona li crea”.

Emblematico che un giocatore del genere sia stato grande in una compagine che, per decenni, ha posto il gioco posizionale e la coralità di manovra sopra tutto e sopra tutti. Per i seguaci della teoria secondo cui “Guardiola vuole allenare soldatini”, la parabola calcistica del sette volte pallone d’oro deve rappresentare il più imbarazzante momento di riflessione.

Diverse sono invece le caratteristiche di colui che ha dato i natali al 10 quale numero della poesia nel calcio.

Edson Arantes do Nascimento, in arte Pelè, è il giocatore d’attacco completo per eccellenza.

Pelé è classe, Pelè è fisicità, Pelè è mobilità, Pelè è visione di gioco, Pelè è leadership, Pelè è consistenza, Pelè è senso del goal, Pelè è controllo del corpo, Pelè è genio….

Pelè è ….TUTTO

In grado di stazionare sull’intero fronte offensivo, e capace di andare indifferentemente a destra o a sinistra, sa giocare con ambo i piedi su livelli inarrivabili per chiunque.

Dribbla (ma nel suo caso viene bene usare il termine “salta”) gli avversari in mille modi. Li punta quando ce li ha di fronte, li beffa dopo un paio di finte, li aggira grazie alla maggior velocità, li manda fuori tempo con le sue movenze feline. La sua non è una corsa; è una danza morbida dalla coordinazione perfetta e dai movimenti sinuosi.

Quando stacca di testa ci si illude di eguagliarlo ma, non appena l’avversario comincia a scendere, rimane in alto ed indirizza la palla verso uno dei vertici della porta nonostante l’inerzia della spinta risulti oramai assorbita.

Un fuoriclasse dall’intelligenza calcistica cerebrale a cui si aggiunge la capacità di percepire in anticipo lo sviluppo della traiettoria di ogni passaggio.

Come se tutta la tecnica che ha avuto in dono non bastasse, è in grado di muovere le difese avversarie con il solo movimento delle spalle. Se Zico è solito sbilanciare il diretto avversario con il movimento del bacino e a Ronaldinho riesce alla perfezione di ingannare il difensore  muovendo l’anca, Pelé si diverte a mandare al bar gli avversari alternando il movimento delle spalle con il tronco perfettamente perpendicolare al terreno. Il quarto goal della finale mondiale del 1970, realizzato da Carlos Alberto, è il manifesto perfetto di questo movimento. Ad una duplice finta “di spalla” fa seguito un assist all’apparenza semplice, nella sua banale giocata di interno destro effettuata dopo che il difensore è stato ipnotizzato dal movimento corporeo.

Cannoniere infallibile ed allo stesso tempo regista offensivo, dominerà il calcio mondiale divenendone il Monarca assoluto.

Se cercate il significato di perfezione nel dizionario del calcio, lo trovate alla voce Pelè.

Dopo che un paventato trasferimento in Europa negli anni 60 venne stoppato dalle istituzioni perché il Brasile non poteva privarsi di lui, O’Rey concluderà la carriera negli States dove lo copriranno di dollari per riempire gli stadi del soccer, consci di una popolarità senza eguali tra gli sportivi.

Nominato tesoro nazionale del Brasile e patrimonio storico-sportivo dell’umanità, diverrà a tutti gli effetti un’icona pop mondiale nel momento in ci Andy Wharol lo ritrarrà.

Pelè, come detto, rappresenta la perfezione oltre che, a livello comportamentale, la vicinanza al mainstream.

Al contrario di lui, c’è stato chi ha seguito un percorso meno convenzionale, sotto alcuni aspetti imperfetto, ancorché destinato alla gloria eterna del pallone.

I grandissimi sportivi, di ogni tempo e disciplina, si distinguono per una caratteristica fondamentale: tendono ad essere padroni visivi dell’evento sportivo e della situazione che lo contraddistingue.

Ayrton Senna, rimanendo ai racconti di chi l’ha conosciuto, ricordava se, rispetto all’anno precedente, un cartellone pubblicitario esposto in un circuito fosse stato spostato di qualche centimetro. Muhammed Alì aveva il pieno controllo del ring ma anche del bordo ring. Bjorn Borg si accorgeva se sul centrale di Wimbledon veniva modificata di poco la posizione delle sedie in uso durante il cambio campo.

Diego Armando Maradona non sfugge a questa regola. Prima ancora del suo incommensurabile talento calcistico, la peculiarità da sottolineare è quella di essere sempre e comunque padrone visivo  della situazione che lo circonda.

Dallo sviluppo di azioni in zone del terreno di gioco a lui lontane sino a ciò che accade a bordo campo, Maradona ha tutto sotto controllo.

Il suo non è un atteggiamento di insicurezza, tutt’altro. E’ il suo modo di tutelare i compagni, naturalmente meno dotati di lui, a cui, di tanto in tanto, potrebbe venire in mente di non sentirsi all’altezza. E’ come dicesse loro: “Tranquilli, ci sono io”. Ciò vale non solo per chi si trova sul terreno di gioco, ma anche per chi è in panchina o siede in tribuna.

Pure agli avversari sembra indirizzare lo stesso intendimento con la differenza che, quando si rivolge ai contendenti, non lo fa per tranquillizzarli ma per far loro intendere che devono vedersela con lui.

Padrone visivo dell’evento e della situazione, dicevamo.

Talmente dominante da riuscire ad incidere in tutte le zone del campo.

Se il radar di Messi, come abbiamo scritto, copre l’ampiezza di un angolo retto, quello di Maradona è a 360 gradi.

Nessuno tra i giocatori di classe è stato in grado di determinare con un raggio di azione più ampio del suo, tanto da sembrar dotato di occhi anche dietro la testa.

Diversamente dalla maggioranza dei fenomeni del pallone, non ha mai bramato di giocare nelle squadre più importanti.

Se Pelè si è ritagliato il ruolo di calciatore “di governo”, Maradona ha rappresentato l’opposizione calcistica. Sarà per questo che è andato benino a Barcellona e benissimo a Napoli.

Ha trascinato ad un primo e ad un secondo posto mondiale una selezione argentina tra le meno dotate di sempre.

Compagni di squadra, tecnici, massaggiatori, magazzinieri: da nessuno di loro mai una doglianza nei confronti del Diez. 

Gli piaceva sfidare gli squadroni partendo dal basso del suo Napoli che, grazie a lui, si è elevato per oltre un lustro ai livelli di un paradiso calcistico di cui Diego deteneva le chiavi.

Ai suoi tempi le marcature erano diverse da quelle odierne. Più rudi, per certi aspetti. E i cartellini uscivano dalle tasche dell’arbitro con meno frequenza.

Di fronte a colpi, provocazioni, rudezze di ogni tipo, pare spesso sul punto di cadere o di perdere la coordinazione ma poi, come per incanto, con un guizzo improvviso riprende l’equilibrio e riparte con la palla incollata al piede.

Sbaglia clamorosamente chi lo considera un “solista”. In ogni giocata di Maradona c’è sempre il coinvolgimento dei compagni.

Il goal con cui dribbla mezza Inghilterra è frutto anche del movimento di Valdano, che i difensori non possono ignorare mentre Diego ad uno ad uno li affronta.

E quattro anni dopo, quando la difesa del Brasile di Lazaroni decide intelligentemente di mandarlo sul destro per non permettergli il bis dell’Atzeca, offre a  Caniggia la più facile delle conclusioni.

Situazioni simili; scelte differenti.

Definirlo dal punto di vista del ruolo, o meglio, della posizione sul campo, risulterebbe riduttivo.

Abbiamo scritto di Messi, fantastico attaccante che predilige una determinata zona.

Abbiamo reso a Pelè il tributo della sua immensità su tutto il fronte offensivo.

Maradona è un’altra cosa perché è dominante in ogni punto del campo.

Attaccante, rifinitore, trequartista, regista, anche organizzatore.

Il suo “fatato” piede sinistro porta a sognare milioni di appassionati che durante le partite non aspettano altro che godere delle sue giocate.

Che puntualmente arrivano.

Abilissimo in acrobazia oltre che nel calciare anticipando i tempi a seguito di giocate per altri inimmaginabili, come dimostra una meravigliosa rete realizzata a San Siro nel 1985, ubriaca con il proprio dribbling decine di difensori ai cui non resta che ricorrere al fallo per manifesta inferiorità. Purtroppo per loro, molti dei calci di punizione che ne conseguono rappresentano una sentenza scontata, senza possibilità di appello.

Omaggiato da registi (Emir Kusturica su tutti), artisti, personaggi del jet set nonché amico di politici a loro modo “particolari”, vivrà la vita sul filo di un equilibrio instabile, sempre attorniato da una moltitudine di persone con il paradosso di ritrovarsi in solitudine negli ultimi istanti di vita.

Con l’omaggio ai tre fenomeni si conclude il nostro percorso.

Chiediamo scusa a chi abbiamo dimenticato o non omaggiato al meglio, nella consapevolezza che il calcio, e lo sport in generale, possa assumere in taluni e specifici casi i connotati della poesia, in una condivisione del “bello” quale aspetto da perseguire nella propria complessità.

DI ALESSIO RUI, ALBERTO FERRARESE E FILIPPO GALLI

ALBERTO FERRARESE

BIO: Alberto Ferrarese,  nato a San Donà di Piave il 5 settembre 1988,  è protagonista del calcio dilettantistico veneto da oltre 18 anni con preziosismi e giocate di alta scuola a riprova del fatto che la “poesia del numero 10” si lascia ammirare in qualsiasi campo e categoria.

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