Per quelli della mia generazione (sono del 1974) i Mondiali di Calcio sono quelli di Spagna ’82: perché erano i primi seguiti interamente e con memoria delle partite, perché era estate e tutto sembrava più intenso e magico. E perché li abbiamo vinti con la nostra Nazionale.
E poi c’era l’album delle figurine da completare, con quelle maglie colorate, quelle bandiere e quei nomi esotici di persone che arrivavano da Paesi lontanissimi e sconosciuti.
Tra quelle figurine c’era quella del Capitano del Brasile, con un nome che non si poteva dimenticare: Socrates, che colpiva per la sua originalità (molto prima di avere consapevolezza della sua origine attraverso gli studi scolastici).
Sócrates Brasileiro Sampaio de Souza Vieira de Oliveira, questo il nome completo del giocatore-filosofo-medico.
Nato nel 1954, primogenito di una famiglia povera che viveva in una zona ai confini della foresta amazzonica (tra i suoi 5 fratelli ci sarà anche l’ultimogenito Raì, nato 11 anni dopo, che militerà nel San Paolo e nel PSG e che, a quanto sembra, avrebbe dovuto chiamarsi Xenofonte, per la passione citata nelle prossime righe).
Il padre, Raimundo, era un avido lettore autodidatta appassionato di filosofia (come testimoniato dai nomi dati ai primi tre figli: Sócrates, Sóstenes e Sófocles) e che trasferì la famiglia, una volta ottenuto un posto di lavoro stabile, a Ribeirao Preto, nella zona di San Paolo. Ed è qui che Socrates si formò, come calciatore, come medico, come uomo vicino alla gente nelle strade; quelle strade malridotte e piene di buche e ostacoli, che però favorirono lo sviluppo delle sue capacità sul campo: di calcio e della Vita.
I suoi inizi sono nel Botafogo, affiancando prestazioni memorabili sul campo (pur non allenandosi su concessione della società) agli studi di medicina.
E già in quegli anni, anche se non sembrava interessarsi di politica a quei tempi, si era distinto per iniziative non comuni per un calciatore professionista: portava sempre un quotidiano da lasciare negli spogliatoi in modo che i compagni potessero leggerlo e propose, una volta vinto il titolo statale, di dividere il premio tra tutti i membri della società: i calciatori ma anche il massaggiatore o le addette alle pulizie, perché ognuno con il suo lavoro aveva contribuito al risultato.
Stava gettando le basi per quello che sarà un esperimento senza precedenti nella storia del Calcio e un movimento che contribuirà in modo significativo al cambiamento nella società brasiliana dell’epoca: la Democracia Corinthiana.

(La maglia del Corinthians che promuoveva l’esperimento della Democracia)
Nome che mi è tornato in mente leggendo il commento del mio amico Roberto al mio articolo precedente (pubblicato l’8 aprile) nel quale definiva il Calcio come “lo strumento sociale più potente” in tutto il Mondo.
E questo mi ha fatto pensare a quel centrocampista alto e magro, con i capelli ricci e la barba incolta, definito da Pelè “il calciatore più intelligente della storia del calcio brasiliano”, che era diventato famoso, oltre che per lo stile elegante ed artistico sul campo e fuori, (e per il goal segnato all’Italia nella mitica partita di poi vinta dagli azzurri per 3-2) per le sue dichiarazioni ed il suo impegno sociale con atteggiamenti e doti intellettuali che erano (e forse purtroppo oggi lo sono ancora di più) atipiche nel mondo del Calcio professionistico.
Siamo nel Brasile degli anni ’70 sotto il regime militare che si era instaurato nel 1964 e progressivamente aveva ridotto la libertà nel Paese, creando una soffocante dittatura; ed è in questo contesto che Socrates insieme a Casagrande (che arriverà in Italia all’Ascoli nel 1987 per poi trasferirsi al Torino 5 anni dopo) e Wladimir, decideranno di utilizzare il Calcio come vero e proprio strumento di protesta sociale; rompendo gli schemi e uscendo da tutto ciò che fino a quel momento era considerato “normale” nell’ambiente dello sport più amato in Brasile, creando un collettivo che promuoveva la libertà di ognuno al di fuori delle gerarchie, il potere della maggioranza tra uomini tutti uguali: ecco che cos’era la Democracia Corinthiana.
Nella squadra del Corinthians tutto veniva deciso dall’assemblea per alzata di mano, a partire dalla formazione, ma anche l’ora del pranzo o l’abolizione di una pratica diffusa all’epoca: la concentracao, una specie di ritiro in albergo che poteva durare giorni e prevedeva anche l’indottrinamento politico.

(Socrates, Casgrande e Wladimir ai tempi del Corinthians)
Il Corinthians prima della nascita della Democracia (ufficialmente nel 1982) era in condizioni economiche pessime.
Era la squadra del popolo, nata nel 1910 a San Paolo nella Rua dos Imigrantes (Via degli immigrati) per desiderio di gruppo di operai che voleva contrastare la tendenza che vedeva il Calcio come uno sport elitario riservato principalmente a chi aveva origini o legami con il mondo britannico.
E ,paradossalmente, la scelta del nome fu fatta proprio in onore di un team inglese fondato nel 1882.
Si trattava di una squadra che aveva lo scopo di promuovere i valori del Calcio e della sportività nel mondo: il Corinthian Football Club che per molti anni aveva rifiutato di affiliarsi a qualsiasi federazione non accettando l’idea di premi in denaro legati alle vittorie e che (leggenda narra) durante una tournée in Sudafrica, in occasione di un rigore concesso agli avversari, avesse dato indicazioni al proprio portiere di appoggiarsi al palo e lasciare passare il pallone, per la vergogna di aver commesso un fallo in area, azione considerata davvero “antisportiva” (praticamente erano gli antiVAR per eccellenza).
La squadra poi nel 1939 si fuse con il Casuals Football Club e attualmente milita nella settima divisione inglese (la Isthmian Premier Division).
Altra curiosità: in un’amichevole del 1904 inflisse al Manchester United quella che ancora è la peggior sconfitta della sua storia: 11-3…

(Il Corinthian Football Club in un’immagine dell’epoca)
Tornando ai Corinthiani del Sudamerica, il loro motto era: “ser campeão è detalhe” (essere campioni è solo un dettaglio) e spesso entrava in campo con uno striscione che diceva “vincere o perdere, ma sempre con democrazia”.
I giocatori, ma anche lo staff, avevano deciso di opporsi al regime militare antiliberale per promuovere un cambiamento nel popolo.
All’epoca era questo il modo per essere un “influencer”.
Socrates cominciò a essere identificato come leader quando, durante il suo secondo anno di militanza nella squadra di San Paolo, chiese allo sponsor tecnico (la Topper) di fornire più materiale perché le due maglie fornite ogni mese non bastavano. Ovviamente ottenne un rifiuto, in seguito al quale studiò un’efficace strategia persuasiva per far cambiare le cose: lui ed i suoi compagni scesero in campo con le maglie al contrario in modo da non far vedere il nome dello sponsor.
Ed ecco che era iniziato il suo movimento di protesta contro il potere imposto dall’alto, attraverso la cultura, l’impegno in prima persona e l’applicazione di alcuni strumenti che ora potremmo identificare come un mix di anarchia, passione e marketing sociale.
E un’importante svolta avvenne con la presidenza di Waldemar Pires e del figlio Adilson, coetaneo di molti giocatori, leader del movimento studentesco in passato e sostenitore della democrazia in Brasile. Insieme a loro era presente l’allenatore Mario Travaglini, favorevole alle decisioni attraverso l’assemblea.
Grazie a questa combinazione di fattori e di persone, il Corinthians vinse per due volte il Campionato Paulista, trascinato dai tifosi verso il successo, attraverso un gioco fatto di eleganza, spirito di squadra e creatività, come quella dei colpi di tacco di Socrates: il tacco, che rappresenta l’anti-movimento nel calcio, il gesto fuori degli schemi e dalle imposizioni, che spiazza e crea nuove situazioni.
Proprio come facevano i giocatori della Democracia attraverso la loro presenza in campo e nella società, con lo stadio come metafora della lotta al potere, che unisce sudore e passione in un sogno di libertà che contribuì in modo significativo ai cambiamenti politici in Brasile.
E come tutti i sogni anche questo ebbe una fine, nel 1984, quando Socrates decise di abbandonare la sua terra (aveva promesso di farlo se non fossero state approvate le libere elezioni, e così è stato) per approdare alla Fiorentina dei conti Pontello, per 5,3 miliardi di lire ed un ingaggio pazzesco per quel periodo: oltre un miliardo a stagione, più numerosi “benefit” tra cui un corso di specializzazione in ortopedia pediatrica, mai frequentato.

(La figurina di Socrates e Antognoni ai tempi della Fiorentina: due coetanei caratterizzati da un talento indiscusso
Ma le grandi aspettative dei tifosi non furono gratificate, con alcune prestazioni fatte di gioco stiloso e “unico” ma un bilancio di meno di 10 goal tra campionato e coppe e la difficoltà ad integrarsi nel calcio italiano e nello spogliatoio, per lui che alle interviste citava Antonio Gramsci e con i colleghi faceva riferimenti a John Lennon.
Così fece ritorno in Brasile nell’85 con il ritiro dal calcio giocato 3 anni dopo, dedicandosi ai commenti sportivi, allo spettacolo ed alla musica (aveva già prestato la voce a Toquinho nella canzone Aquarela ed un album inciso da “solista”).

(L’album musicale Casa de Cabocio, inciso dal calciatore nel 1980)
Fece in seguito un episodico ritorno sui campi a circa 50 anni in qualità di giocatore allenatore del Garforth Town (una squadra non professionistica inglese).

(Socrates nel 2004 con la maglia della squadra inglese)
Poi nel dicembre 2011, dopo diversi ricoveri ospedalieri date le condizioni del suo fisico intaccato dalla vita fatta fuori dal campo (con troppe sigarette a alcolici) il “Che Guevara del Football” come era stato definito da un giornale italiano, ha “definitivamente appeso le scarpette al chiodo” e lo ha fatto proprio nel giorno in cui il Corinthians si sarebbe laureato campione nazionale battendo il Palmeiras; lui che nel 1983 aveva dichiarato che il suo desiderio era morire di domenica mentre la sua squadra vinceva il titolo.
Come già scritto, Socrates in Italia non è andato molte volte a segno, ma sicuramente ha lasciato “il segno” e rappresenta nella memoria di noi 50enni (ma non solo) un “modello”: di calcio “speciale” fatto di eleganza e imprevedibilità, proprio lui che nella sua atipicità nel mondo milionario del “pallone”, ne incarnava i valori di lealtà, passione, estro e determinazione; valori che andavano ben oltre il campo di gioco, per riversarsi nella società: il calcio quindi come “strumento” e non come “risultato”.

E forse ne ha colto l’essenza proprio in questa visione, nella quale “giocare” veniva dato per scontato, nel senso che la partita, la sfida, erano uno spazio nel quale costruire una giocata, una sintonia con la squadra e con il pubblico, un “movimento” che rappresentava (per dirlo con un riferimento alla psicologia della Gestalt) qualcosa di più della somma delle parti, qualcosa di “semplicemente bello”.
Perché ancora una volta il Calcio, nella sua complessità, era ed è qualcosa di molto semplice.

BIO: ANDREA FIORINDO
Nato e cresciuto in Piemonte da genitori veneziani, psicologo- psicoterapeuta e psicologo dello sport, vive Torino dopo aver lavorato in diverse aree del Mondo caratterizzate da conflitti armati o catastrofi naturali.
Da oltre 20 anni si occupa di Comunicazione e Cross Cultural Communication.
Le sue passioni più grandi sono: Claudia (la sua compagna) e la loro “modern family”; i coltelli ed il Calcio, che considera una splendida occasione di trasmissione di valori familiari ed una fede da portare avanti “fino alla fine”.