DAL CAMPO ALLA PANCHINA: IL GRANDE GIOCATORE DIVENTA GRANDE ALLENATORE?

“Ho dato la mia vita al calcio, pur non avendo mai giocato a calcio: allenare senza essere mai stato un calciatore? Non è un paradosso, anche il fantino non è mai stato un cavallo…”. Questa l’affermazione di Arrigo Sacchi, ex ct della Nazionale e allenatore del Milan “berlusconiano” dal 1987 al 1991.

Arrigo aggiunge: “Il vantaggio di non avere un passato è che si guarda solo al futuro e così si possono portare idee nuove. Il calcio non parte dei piedi ma dalla mente. Ma in Italia, andare controcorrente è davvero dura, cercano sempre di affossarti”.

Queste frasi sono già state oggetto di dibattito tra gli addetti ai lavori e tra gli appassionati di calcio.

La tabella introduttiva, su gentile concessione di http://calciodadietro, si riferisce al percorso professionale dei calciatori campioni del mondo in Germania nel 2006 e ci riporta a quanto affermato dal tecnico di Fusignano.

Dalla stessa si evince che chi si è laureato campione del mondo non ha raggiunto nella professione di allenatore, almeno fino ad oggi e in termini di risultati sportivi, livelli di eccellenza.

Ora, dal mio punto di vista, essere un grande allenatore non equivale, necessariamente, a vincere titoli.

Sembra di capire però che, spesso al di là delle conoscenze e delle competenze tecnico-tattiche, la scelta dell’allenatore cada su coloro che, si presume, abbiano la capacità di vivere lo spogliatoio, di gestire le dinamiche che in esso si generano. Ci si orienta perciò verso chi quelle dinamiche le ha vissute ai massimi livelli.

Averle vissute però, non sempre, significa saperle gestire, saperle governare, perchè l’ambito è più complesso, non è solo quello personale.

Inoltre occorre tener presente che la figura dell’allenatore, ultimamente, è estremamente esposta dal punto di vista mediatico con l’effetto di risultare ambita ed affascinante.

Le società scontano questa situazione affidandosi a nomi importanti ( o a volte addirittura al phisique du role) mentre questi ultimi sottovalutano il fatto che allenare in B o in C possa portarli in ambienti dove incontrano problematiche ben diverse (strutturali, logistiche, economiche, non solo tecniche) rispetto a quelle a cui erano abituati nei club, spesso importanti, in cui hanno trascorso buona parte delle loro carriere.

Credo sia fondamentale aver avuto delle esperienze da vice (o comunque da componente di uno staff) di altro allenatore o anche di allenatori diversi tra loro per comprendere meglio i vari sistemi di lavoro. Un esempio è quello di Paolo Bianco, assistente, in tempi ravvicinati, prima di De Zerbi e poi di Allegri, tecnici assai diversi tra loro. Aver diversificato le esperienze potrebbe tradursi in un vantaggio per lui.

La domanda è : È giusto e crea valore, pertanto, privilegiare l’accesso ai corsi per ottenere le licenze di allenatore a chi ha vinto e/o ha potuto competere ad alti livelli?

La discussione è aperta.

Filippo Galli & Alessio Rui.

17 risposte

  1. Ciao Filippo, ciao Alessio,

    la questione non è di poco conto, perchè chi allena, come Voi ben sapete ha responsabilità enormi. Io sarò anche di parte, perchè non ho un passato da professionista, nè le possibilità economiche o di tempo per permettermi un corso federale anche solo locale (anche arrivando ai punteggi per l’ammissione), ma ritengo che se è giusto che le regole ci siano, allora dovrebbe essere consentito un accesso più equilibrato a tutti. Quindi ben vengano gli esami e le abilitazioni e le regole, ma dovrebbero cambiare le regole di accesso. (io studio medicina dello sport per conto mio da 20 anni, ma sono costretto a fre il ghost accettando solo incarichi da collaboratore tecnico).
    Per il resto la risposta Ve la siete data da soli, con la frase storica del fantino e del cavallo (alla quale aggiungerei la chiusura che gli diede il Mister Gigi Cagni all’epoca, ossia che aver giocato non è necessario, però aiuta molto).
    Filippo ha avuto per 5 anni un Sacchi, un allenatore vincente che non è stato un giocatore professionista, ma prima di lui e dopo ha avuto due allenatori vincenti che sono stati dei fuoriclasse.
    Vent’anni fa in un editoriale del compianto settimanale “Rigore” di Teotino, il portiere di quello squadrone, e omonimo di Filippo, si augurava provocatoriamente che tutto il sistema dei patentini finisse, in quanto, sosteneva, nella realtà ci sarebbe stata una selezione naturale degli allenatori più bravi. Questo nel tempo si è rivelato corretto solo in parte.
    Però Vi ricorderete che Eriksson appena arrivato in Italia non lo facevano scendere in panchina, malgrado avesse vinto la coppa delle coppe e allenato il Benfica…ecco questo è paradossale…oggi Sacchi, Zeman, Mourinho e Villas Boas non potrebbero diventare allenatori molto facilmente e questo è sbagliato.

    1. Caro Giovanni,
      parto dalla fine. Eriksson non poteva all’epoca sedere in panchina in quanto allenatore “straniero”.
      Era la stagione 1984-85, l’allenatore della Roma era Claguna con Sven Goran DT.
      In seguito dopo cambiarono le regole e gli venne permesso di sedere in panchina.
      Non mi pare fosse una questione di titoli o di patentini.
      Ricordo perfetamente il pezzo pubblicato su “Rigore”, rivista che rimpiango
      La provocazione di per sè era (ed è) corretta.
      Il problema, al netto di corsi, patentini e diplomi, sta nel fatto che la selezione naturale non sempre avviene perchè, come spiegato, entano in ballo altri fattori (comunicazione, phisique du role, nome e palmares importanti, agganci, rapporti società-agenti ecc)
      Esistono, è vero, degli accessi prefernziali. Ma dobbiamo aver fiducia che la competenza (che nel mio modo di pensare non si misura solo dai risutati) possa emergere.

    2. Sarebbe giusto poter dare a tutti le stesse possibilità, a calciatori e non. Ad esempio eliminando il sistema dei punteggi sportivi per accedere ai corsi, magari sostituendoli con dei test di ingresso, che indurrebbero a studiare già prima del corso, come funziona con il corso da preparatore atletico.
      Un idea potrebbe essere anche creare un vero e proprio percorso di studi, suddiviso a tappe, in 3-4 anni, partendo dal livello base fino ad arrivare al PRO, quasi come un università.
      Ci sono tanto giovani allenatori nelle serie inferiori che hanno delle grandissime capacità ma non riescono ad avere la possibilità di accedere a corsi superiori.
      Semplicemente potremmo mettere tutti sullo stesso livello di partenza.

      1. Ciao Donato, anch’io penso sia necessario modulare la possibilità di accesso mantenendo una % (50%?) grazie al punteggio e l’altro 50% attraverso test attitudinali. Grazie per il contributo.

  2. Buongiorno Filippo e Alessio,
    lascio poche righe per raccontare la mia esperienza.
    Ho 34 anni ed a 17 anni ho dovuto lasciare il calcio giocato sostanzialmente per problemi fisici.
    Non ho mai esordito in categoria (nemmeno in terza!) essendomi fermato ad una “misera” juniores regionale; quindi niente punteggi, su questo versante,, per entrare nelle graduatorie di accesso ai corsi territoriali.
    Dai 21 anni mi sono avvicinato alla panchina, sempre in qualità di allenatore in seconda/collaboratore: juniores regionale, juniores nazionali, tre anni di Berretti, due anni di prima categoria.
    Niente di che, per carità, ma qualcosina ho avuto la possibilità di impararlo.
    Punteggi da calcio giocato: 0.
    Da collaboratore/ dirigente: quasi 0.
    Qual è il punto, quindi?
    Che ancora, ad oggi, a mio avviso non è data veramente a tutti la possibilità di formarsi e di intraprendere quel percorso che, a qualsiasi livello, da emozioni quanto stare in campo.
    (Ricordo un articolo di Arrigo del luglio scorso in merito).
    Condivido l’obiezione di chi sostiene che non tutti possono fare gli allenatori, che non basta un patentino; verissimo!
    Ma nessuno, infatti, pensa che tutti i laureati in architettura, dal giorno dopo, diventino automaticamente dei Renzo Piano per il solo fatto di avere quel titolo.
    Buon lavoro,
    è sempre forza Milan.

    1. Caro Fabio,
      Innanzi tutto complimenti per il tuo percorso. Il fatto di non aver approcciato palcoscenici prestigiosi nulla toglie al tuo operato e a ciò che hai appreso.
      Di recente ho avuto modo di veder interagire, in seno ad un’iniziativa, campioni che hanno trionfato in champions League con responsabili di settori giovanili di società dilettantistiche.
      L’universalità della lingua del calcio ha fatto sì che il dialogo e l’interazione non scontassero la differenza delle reciproche esperienze.
      Di sicuro i punteggi preventivi non aiutano a far emergere il merito con l’effetto, da un lato, di avvantaggiare chi ne può usufruire e, dall’altro, di rendere il contesto di riferimento simile ad un sistema a numero chiuso.
      Su questo avete ragione
      Un saluto
      Alessio

  3. Buongiorno Filippo e Alessio,
    lascio poche righe per raccontare la mia esperienza.
    Ho 34 anni ed a 17 anni ho dovuto lasciare il calcio giocato sostanzialmente per problemi fisici.
    Non ho mai esordito in categoria (nemmeno in terza!) essendomi fermato ad una “misera” juniores regionale; quindi niente punteggi, su questo versante,, per entrare nelle graduatorie di accesso ai corsi territoriali.
    Dai 21 anni mi sono avvicinato alla panchina, sempre in qualità di allenatore in seconda/collaboratore: juniores regionale, juniores nazionali, tre anni di Berretti, due anni di prima categoria.
    Niente di che, per carità, ma qualcosina ho avuto la possibilità di impararlo.
    Punteggi da calcio giocato: 0.
    Da collaboratore/ dirigente: quasi 0.
    Qual è il punto, quindi?
    Che ancora, ad oggi, a mio avviso non è data veramente a tutti la possibilità di formarsi e di intraprendere quel percorso che, a qualsiasi livello, da emozioni quanto stare in campo.
    (Ricordo un articolo di Arrigo del luglio scorso in merito).
    Condivido l’obiezione di chi sostiene che non tutti possono fare gli allenatori, che non basta un patentino; verissimo!
    Ma nessuno, infatti, pensa che tutti i laureati in architettura, dal giorno dopo, diventino automaticamente dei Renzo Piano per il solo fatto di avere quel titolo.
    Buon lavoro,
    è sempre forza Milan.

  4. Saper giocare non vuol dire saper allenare.. e viceversa…
    Non è necessario saper giocare da campioni per poter allenare… Sono due mondi completamente diversi

  5. Il “clagsson”!!!
    Sì, sì certo non era una questione di patentino, però era una regola grottesca. Se avere tolto (e poi razionato) gli stranieri in campo era una misura che aveva un senso per il bene per esempio della Nazionale (e non a caso l’hanno pensata dopo il mondiale del 66), togliere gli stranieri dalla panchina era una stupidaggine nel paese che chiama l’allenatore Mister proprio perchè uno dei primi era inglese.
    E’ vero comunque Galli G. aveva ragione in linea di principio, ma poi nei fatti influiscono tutti quei fattori che hai detto Tu e la selezione risulta sempre un po’ decaffeinata.

  6. argomento interessante. ritengo che oggi, con lo sviluppo di evre e proprie “squadre” di direzioen tecncica di un Team professionsitico, la differenza sia meno rilevante (se non insussistente) rispetto ad un tempo. oggi la direzione tecnica può a mio parere essere affidata anche ad un non ex giocatore (financo a chi non ha mai neanche quasi toccato un pallone) posto che, epr gli aspetti motivazionali, di gestioen del gurppo, il Mister può essere affiancato da ex giocatori, psicologi, ecc.
    occorrerebbe aprire realmente (e non solo formalmente) i corsi per dare il patentino, magari anche revocando il monopolio della Federazione nell’organizzarli. è anticompetitivo che all’estero non ci siano le limitazioni presenti di fatto in italia.

  7. credo che qs articolo sollevi 2 differenti piani di analisi.

    – Sul fatto che si possa essere dei grandi allenatori anche senza essere stati giocatori importanti, credo che sia la realtà stessa a dimostrarlo mediante esempi quali Sacchi, Nagelsmann, Benítez, etc etc.

    – Poi c’è un altro problema prettamente italiano, che è quello di trasformare tutti i mestieri in delle corporazioni che si autoptoteggono.
    Io abito in spagna e per fare il patentino uefa B (ex 3a categoria) non ho dovuto raggiungere nessun punteggio, solo pagare l’iscrizione e partecipare al corso.
    La stessa federazione ci proponeva un percorso per ottenere il titolo UEFA Pro nelle giro di 18 mesi.
    In quell’anno (2016) la Spagna rilasciava c/a 800 licenze UEFA Pro, (anche se adesso li hanno obbligati a ridurre), mentre in Italia si hanno 30 posti ogni 2 anni al supercorso di Coverciano, con restrizioni via via crescenti.

    In ogni caso i progressi realizzati dal calcio spagnolo dovrebbero insegnarci che il modello che funziona è quello che garantisce un accesso ampio alla formazione. E poi saranno le società a decidere quali sono gli allenatori che meritano.

  8. arliamo in maniera molto chiara Filippo Galli! La risposta AFFERMATIVA alla domanda ha senso SOLO se si vuole confermare e rafforzare il movimento dello sport professionistico COME SISTEMA CHIUSO E PER POCHI! Questo certamente può comportare dei vantaggi per una cerchia ristretta MA SECONDO ME IMPOVERISCE IL SISTEMA! Non c’è cosa peggiore dell’appiattimento e dell’omologazione! Si impedisce al sistema di attingere a competenze e conoscenze diverse e si cortocircuita su quello che attualmente è il patrimonio di conoscenza già acquisito. Per esperienza professionale diretta – in ambito delle officine ortopediche in cui vale, per altre ragioni, un sistema simile di chiusura – il progresso e l’innovazione è molto lento perché si tende a ripetere tutti le medesime procedure standard! Quando è avvenuto che tale equilibrio statico è stato alterato da elementi esogeni – io ne sono stato uno degli esempi più concreti degli ultimi 15 anni – al sistema è stata inferta una accelerazione impressionante al cambiamento e all’innovazione con uno step enorme rispetto ai 50 (e forse anche più) anni precedenti

    1. Ciao Roberto, sappiamo come il nostro mondo sia refrattario ai cambiamenti, come voglia resistere. Non è tanto la resistenza a preoccuparmi perchè se si resiste a qualcosa significa che se ne prende atto che si è consapevoli ci sia dell’altro, a preoccuparmi è la noncuranza, il girare lo sguardo da un’altra parte che è preoccupante.
      Grazie del contributo.

  9. Sacchi ha profondamente ragione e la sua frase del cavallo e del fantino e’ cosi logica che non dovrebbe nemmeno lasciare spazio a discussioni.
    Un po’ come dire che per essere medico bisogna essere stato malato.

    Essere Calciatore ed essere allenatore sono due professioni completamente diverse.

    Quindi dal punto di vista teorico gli ex calciatori non dovrebbero avere privilegi nell’ottenimento del patentino.

    Il problema pero’ e piu’ grave. In Italia per ottenere una licenza UEFA pro senza essere stato un giocatore professionista e’ una via crucis quasi impossibile.

    Sarebbe sufficiente fare 50/50.
    Ovvero lasciare il 50% dei posti ad ex calciatori ed il restante 50% agli altri.

    Gia questo sarebbe un enorme passo avanti.

  10. Condivido quanto scritto in precedenza da tutti, quindi scrivo questa mia testimonianza personale, che riguarda il tema trattato.
    Ho ottenuto la mia Licenza Uefa in Irlanda. Dopo essermi iscritto alla preselezione del corso FIGC, quella dei punti per intenderci. Parlo dell’anno 2008, il corso si svolgeva ogni 2 anni se non 3 e la selezione raggruppava almeno un paio di province. Alla fine mi mancano 0,50 punti e sono fuori.
    Io al tempo avevo 38 anni e non mi sentivo giovanissimo per intraprendere un percorso di studi. All’epoca si poteva allenare senza patentino (viene chiamato così solo in Italia, un po’ riduttivo visto il percorso studi che ci sta dietro), ma io volevo essere sicuro di portare concetti e nozioni efficaci per i giovani calciatori. Ho iniziato nel 2010 con attestati per l’insegnamento a giovani calciatori, ed in seguito per i più grandi ed evoluti. L’Uefa C non era ancora regolamentato, ma già in Irlanda, era impostato come tale. Nel 2013 ottenni finalmente la Licenza Uefa B. Durante il mio periodo di formazione, ho apprezzato e mi sono accostato ad una nuova cultura sociale, quindi anche sportiva, tanto che il mio percorso di studi che è diventato sempre più intenso è terminato, nel novembre del 2021 con l’esame per l’Uefa A, dopo 2 anni di interruzione dovuta al Covid.
    Chiaramente per allenare in Italia ho dovuto provare tutto questo. Anche oggi per frequentare i corsi di aggiornamento, la FIGC mi ha chiesto di farmi rilasciare dalla FAI, Federal Association of Ireland, l’autorizzazione a frequentare gli aggiornamenti in Italia.
    Praticamente ho portato avanti 2 percorsi di formazione, perché pure in Italia, ho seguito tutti gli aggiornamenti obbligatori.
    E’ stato un percorso lungo, non una scorciatoia, durato più di 10 anni. Non è stato facile, perché non si pensi che sia stato banale. Adesso anche le altre nazioni sono avanti a livello calcistico, internet ha contribuito alla diffusione del mondo calcio, e la FAI è da tempo all’avanguardia soprattutto nei campionati giovanili e femminili. Ne è una testimonianza il torneo delle nazioni U15 vinto dall’EIRE (Repubblica d’Irlanda) nel maggio scorso 2023.
    Quanto ho scritto è solo per confermare, quanto già detto, della burocrazia enorme che ci sta dietro e la non piena libertà dell’accesso alla formazione. La formazione sportiva, che a mio parere, dovrebbe essere un diritto per tutti come lo è la scuola. Non dobbiamo scordarci che nel mondo dilettantistico ce più bisogno di questo, un mondo dove tutti dovrebbero essere informati e formati (dirigenti compresi, ci metto io!), per ottenere il fine più alto di divulgare una corretta cultura sportiva a tutti gli addetti ai lavori, ai giovani calciatori e perché no anche ai genitori.

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