“IL NUMERO 10”: LA POESIA DEL CALCIO IN ITALIA, EUROPA, SUDAMERICA E…1^ PARTE.

INTRODUZIONE

Dopo esserci chiesti con l’articolo di Andrea Fiore : “C’e’ ancora posto per la poesia nel calcio?”, iniziamo il viaggio tra i “numeri 10” che hanno deliziato le platee italiane, europee e mondiali a partire dal NUMERO 10 per antonomasia, Edson Arantes do Nascimento in arte Pele’, fino ai giorni nostri.

Parleremo di giocatori che hanno portato con se’ contraddizioni, che sono stati osannati, abbandonati e poi portati di nuovo in auge, non necessariamente in questo ordine, dalla critica e/o dai propri sostenitori. Sicuramente non accontenteremo tutti gli appassionati di questo sport e ci aspettiamo, pertanto, proposte legate a questo o a quel giocatore che non abbiamo annoverato. Ringrazio Alessio ed Alberto per la passione e competenza che hanno mostrato nella stesura di ogni singola parte.

Un grazie a chi ci leggera’!

PRIMA PARTE

Per tutti gli amanti del football il 15 giugno 1958 è una data da incorniciare considerato come sia il giorno in cui Edson Arantes do Nascimento, in arte Pelè, ha indossato per la prima volta la maglia della nazionale verdeoro ad un campionato del mondo.

L’evento, già di sé importante, è diventato iconico nei decenni successivi in considerazione del fatto che, da quel momento in poi, il numero di maglia indossato da Pelè avrebbe rappresentato il più ambito, più sognato e dibattutto della storia del calcio. La maglia con il numero 10 sino ad allora era una maglia come un’altra. Di sicuro era stata onorata da fenomeni come Valentino Mazzola o Puskas, ma non aveva mai rappresentato un simbolo per le due cifre (l’1 e lo 0) che la contraddistinguono.

Da quel pomeriggio di giugno del 1958, giocare con la “10” avrà tutt’altro valore.

Diverrà una maglia diversa dalle altre; diverrà il numero della fantasia, dell’inventiva, della giocata intrisa di bellezza

Diverrà il numero della poesia calcistica.

Nemmeno l’introduzione dei numeri fissi sulle maglie scalfirà negli anni a venire il fascino del 10.


Anche gli appassionati più propensi alle conoscenze collettive, ovvero attenti agli aspetti non strettamente legati alla tecnica individuale e intenti a considerare il calcio come sport di squadra, non possono rimanere immuni davanti al fascino di questo numero. La storia dei calciatori più amati e più discussi si è spesso imbattuta in chi era solito indossare questa maglia.

Il paradosso risiede nel fatto che, proprio seguendo l’evoluzione del “10”, ovvero del numero che rappresenta più di ogni altro il colpo ad effetto, è possibile operare un parallelo con l’evoluzione tattico-strategica che ha influenzato il calcio italiano ed internazionale.

Lo scopo dell’analisi che segue, oltre ad omaggiare i più grandi dieci degli ultimi decenni, è quello di elencarne le diverse peculiarità, al fine di disegnare il percorso evolutivo tracciato dai mutamenti di funzioni e di modalità di esecuzione del gesto che hanno contraddistinto i calciatori di maggior classe.

Il tutto costruendo, per quanto possibile, un parallelo tra le loro caratteristiche e le diverse posizioni in campo.

Si cercherà di dimostrare come la classe, la tecnica e la fantasia non abbiano mai mancato di abbellire il football, pur adattandosi in taluni casi ai cambiamenti tattici e alle idee che, soprattutto sul finire degli anni 80, rischiavano di relegare il 10 ad una funzione meno determinante rispetto a quella che era ed è solito rivestire.

Come molti miti, anche quello legato alla maglia numero dieci sconta una percentuale di casualità.

Se è vero, come è vero, che è stata la grandezza di Pelè a dare impulso ad un sentire comune per cui il 10 è diventato il tratto distintivo dei  fenomeni del calcio, verità vuole che O’ Rey si sia trovato ad indossare quel numero per puro caso.

Ed infatti, alla vigilia del mondiale del 58, quest’ultimo non risultava tra i giocatori più famosi della Selecao.

Aveva, questo sì, già fatto parlare di sé ma, nelle gerarchie di squadra, veniva dietro a giocatori a quel tempo più considerati.

Il caso volle che, in occasione della Coppa del Mondo giocata in Svezia, la Federazione Brasiliana non avesse consegnato alla FIFA la lista con i numeri che avrebbero contraddistinto ogni calciatore per la durata della manifestazione con l’effetto che, a pochi minuti dall’inizio della prima gara, ogni giocatore si prese la maglietta che gli capitò tra le mani.

Al ragazzino, che nelle prime due gare non sarebbe comparso nell’undici titolare, capitò la 10…Una volta visto all’opera in occasione della terza gara del girone contro l’URSS, il numero della sua  maglia sarebbe stato il più ambito.

Sono rarissimi i club che nella loro storia possono vantare maglie più importanti della 10.

Volendo citarne un paio, non possiamo tralasciare il Torino i cui tifosi, dalla prematura scomparsa di Gigi Meroni, tendono a conferire un valore leggendario, e per certi versi mistico, alla numero 7, successivamente onorata da altri importanti esponenti granata quali Claudio Sala e Lentini. O il Manchester United, club in cui sempre il numero 7 tende ad essere considerato un valore aggiunto per aver accompagnato le gesta di grandi stelle come George Best, Robson, Cantona, Beckham e Cristiano Ronaldo.

Trattasi di isolate eccezioni.

Nella maggior parte delle squadre la maglia più ambita rimane la10.

Per quanto concerne il calcio di casa nostra, a partire dagli anni 60, il numero 10 comincia a capitalizzare l’attenzione degli sportivi.

Ma nel contesto italico, per almeno un quarto di secolo, non rappresenta il sinonimo della fantasia, del dribbling e dell’estro.

Durante quegli anni la fantasia ed il dribbling sono quasi sempre ad appannaggio del 7, ovvero l’ala destra denominata “tornante”, in seno ad un percorso calcistico, originato da Meroni, che tende ad identificarsi con Domenghini, per poi svilupparsi sino ai più alti livelli di eleganza con Causio, completarsi con Conti (capace, nella Roma di Liedholm, di rivestire la funzione dell’uomo di fantasia tanto a destra quanto a sinistra dello schieramento) e perfezionarsi con Donadoni il quale, nelle prime uscite con l’Atalanta e nell’Italia di Vicini, interpreta il ruolo con una maggior dinamismo, per poi coprire una porzione di campo più ampia nello scacchiere di Sacchi.

Una menzione, in seno a questo percorso, è dovuta anche in favore di Claudio Sala che, chiuso in nazionale da alcuni dei succitati campioni, avrà comunque modo di deliziare i tifosi granata con giocate di alta scuola.

All’interno di un calcio che tende a relegare la fantasia e l’estro sulla corsia di destra, il numero 10 di scuola italiana si distingue per essere una mezzala avvezza alla fase di rifinitura, dotata di tecnica e sapiente visione di gioco.

Per giungere al 10 inteso come rifinitore, trequartista, seconda punta o sottopunta bisognerà attendere sino agli anni 90.

Prima di allora, la mezzala (altrimenti detta “interno sinistro”), rappresenterà il cervello e la guida tecnica della squadra.

Un mix tra un regista avanzato ed un rifinitore poco propenso al dribbling ma portato alla ricerca del passaggio smarcante.

In un ipotetico podio di questa categoria il gradino più alto non può che spettare a Gianni Rivera,   pallone d’oro nel 1969 nonché bandiera del Milan che condurrà alla conquista di due Coppe dei Campioni. E’ un giocatore delizioso nelle movenze. La falcata non è particolarmente ampia ma il movimento della corsa non risulta mai in affanno. Una vera manna per gli attaccanti che manda regolarmente in rete grazie ad assist precisi e chirurgici, frutto di un pensiero che risiede sempre un po’ più avanti rispetto agli altri 21 in campo. A beneficiarne anche il terzino sx rossonero di allora, Aldo Maldera, autore di 9 goal in campionato, grazie a quella che oggi definiremmo, calcisticamente, relazione socio-affettiva.

Rivera, non particolarmente mobile, ha una visione unica. Abilissimo nell’indovinare il filtrante, si trova particolarmente a suo agio nelle giocate sul corto e sul medio spazio. Se c’è una traccia per liberare un compagno solo davanti al portiere lui la coglie. Se non c’è, tende a disegnarla. Il tutto con eleganza innata.

Secondo, ma non per eleganza, è Giancarlo Antognoni, regista azzurro ai mondiali del 78 e dell’82, inframezzati da un grandissimo europeo nel 1980. Rispetto al nobile predecessore è meno chirurgico ma più portato al lancio sulla distanza medio-lunga che esegue grazie ad una coordinazione sempre perfetta.

Centrocampista dalla falcata elegantissima, tende a calciare di collo interno, caratteristica che gli permette di eccellere nel cross e nei calci piazzati. La peculiarità di giocare sempre a testa alta gli varrà la definizione coniata da Sandro Ciotti di “ragazzo che gioca guardando le stelle”. Particolarmente apprezzato all’estero, sconterà in Italia il fatto di aver trascorso l’intera carriera in un club, la Fiorentina, non di prim’ordine. Ciò non gli impedirà di salire sul tetto del mondo quale regista dell’Italia Mundial.

Il suo successore in azzurro, Giuseppe Giannini, risulterà meno dominante nel lancio e meno decisivo in occasione dei calci piazzati. Più propenso all’inserimento, si distinguerà nelle giocate a due tocchi da effettuare sullo stretto. Abile nel mandare a vuoto il pressing avversario, concluderà la carriera da regista davanti alla difesa. L’arrivo di Sacchi e l’avvento del sistema di gioco 1442 lo escluderanno dal giro azzurro nonostante l’età ancora giovane. Simbolo della Roma, è uno dei 10 giallorossi più amati dopo Francesco Totti. Risulterà l’ultima espressione del 10 italiano secondo i crismi classici.

Sul finire degli anni 80 è in atto una sorta di rivoluzione che farà si che la mezzala classica lasci posto ad altre figure sul terreno verde. Con ciò spostando la posizione del 10 in altre zone di campo. Da lì in poi, il 10 non sarà più un interno di rifinitura o di regia. Assurgerà agli onori delle cronache anche in Italia quale espressione di arte calcistica ed estro.


Anche se inizialmente non avrà vita facile.

Per la verità, già sul finire del decennio precedente si era affacciato alla ribalta un fantasista schierato con la 10, dal rendimento discontinuo e dall’atteggiamento ribaldo, ricco d’estro e fantasia. Evaristo Beccalossi in quel periodo è solito agire dietro a due attaccanti con funzioni diverse dal classico interno di  centrocampo. E’ un  giocatore meno razionale rispetto alle mezze ali del tempo ma più propenso alla giocata estemporanea. Con lui il calcio italiano inizia a conoscere la figura del “fantasista” secondo  moderna accezione. CONTINUA..

di Alessio Rui, Alberto Ferrarese e Filippo Galli

ALBERTO FERRARESE

BIO: “Alberto Ferrarese,  nato a San Donà di Piave il 5 settembre 1988,  è protagonista del calcio dilettantistico veneto da oltre 18 anni con preziosismi e giocate di alta scuola a riprova del fatto che la “poesia del numero 10″ si lascia ammirare in qualsiasi campo e categoria.”

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