DANISH DYNAMITE – 2^ PARTE

La Danimarca del 1986

Se Laudrup rappresenta l’eleganza e l’intelletto, Elkjaer non disdegna di prendersi qualche licenza.
Non sa, o meglio non vuole, resistere ad alcool, fumo ed altri piaceri. 

Memorabile un episodio della sua esperienza a Colonia secondo cui l’allenatore lo avrebbe ripreso per essere stato visto all’interno di un night in compagnia di una ragazza vicino ad una bottiglia di whisky.

La risposta dell’attaccante è quanto di più disarmante si possa proferire. “La bottiglia era di vodka e le ragazze erano due.”

A metà degli anni 80 è nel pieno della maturità calcistica. Formerà con Laudrup una coppia tra le più forti di sempre.

Con queste premesse l’avvicinamento al mondiale 1986 rappresenta quanto di più eccitante possa esservi.

Ci sono tuttavia alcune controindicazioni.

La Danimarca, alla prima qualificazione ad un mondiale, è inserita nell’ultima fascia tra le squadre da sorteggiare il che, giocoforza, comporterà un girone complicato.

A ciò si aggiunga che il modo di giocare dei danesi, tutto dinamismo ed accelerazioni, potrebbe risentire dell’altura messicana che, unitamente al caldo asfissiante, renderà problematiche le prestazioni di natura aerobica.

A bilanciare queste situazioni ci pensa la cosidetta “hygge” danese, ovvero quell’atmosfera atta a far sì che le persone si godano solo il bello della vita, condividendone i lati positivi con amici e persone a cui vogliono bene. Uno stato di leggerezza e di benessere che porta all’ottimismo e che aiuta  a superare, con il sorriso sulle labbra, gli ostacoli e le avversità.

Nell’avvicinamento al sogno messicano, così come durante l’avventura mondiale, tanto la squadra quanto i tifosi svilupperanno un autentico stato di “hygge” tale da portare relax, benessere psico-fisico, leggerezza e assoluta fiducia nei propri mezzi.

E così, in antitesi agli hooligans inglesi, famosi per le violenze e gli atti di teppismo che, nonostante la tragedia dell’Heysel di un anno prima, continuano a porre in essere, viene coniato per i supporter danesi l’appellativo di “roligans”.

Sono simpatici, calorosi, appassionati e si divertono al seguito della loro nazionale senza venire meno ai principi del buon comportamento e dell’educazione.

“We are red, we are white, we are Danish Dynamite” è lo slogan che, a distanza di quasi quarant’anni, ancora risuona nelle orecchie degli appassionati.

Slogan riuscitissimo, considerato lo stile di gioco “esplosivo” che Arnesen e compagni sono soliti mostrare ai loro supporter

La stagione che porta al mondiale non è stata, per alcuni di loro, all’altezza delle precedenti tant’è che vien lecito pensare si siano “risparmiati” in vista dell’appuntamento in Messico.

Il sorteggio, com’era nelle previsioni, impone alla Danimarca avversari molto quotati. La squadra di Piontek finisce nel girone di ferro, con Scozia, Germania Ovest ed Uruguay.

Unico girone con tre compagini europee a far compagnia ad una storica grande del calcio mondiale.

Ma sono le altre tre le squadre a dover temere.

Lo stato di forma dei danesi è ai massimi livelli, i test sono tutti positivi e i problemi che Piontek si trova ad affrontare sono soprattutto di abbondanza.

Un popolo intero è pronto ad assistere al più importante evento calcistico con protagonista la nazionale danese.

La prima sfida vede inizialmente una Danimarca contratta al cospetto di una Scozia che, messa meravigliosamente in campo da Alex Ferguson, nella parte iniziale sembra più in partita. Ci mette un po’ la dinamite biancorossa ad esplodere ma quando si accende lo fa con la classica giocata di Elkjaer il quale, servito da Arnesen, “sfonda” la difesa scozzese ed insacca con un tiro che, come da consolidato copione, prende in controtempo il portiere e muore all’angolo basso.

SCOZIA-DANIMARCA 0-1 – partita inaugurale della Danimarca al mondiale Mexico ’86

Partita dura, fatta propria dai danesi tra mille difficoltà contro una Scozia mai doma che per buona parte del match ha disinnescato gli attacchi danesi.

La seconda partita, contro l’Uruguay, è destinata ad essere a detta di molti quella decisiva ai fini della  qualificazione.

In realtà non sarà una partita.

Sarà un trattato di calcio.

Con una particolarità: d’essere attuale anche ai giorni nostri.

Ogni qualvolta facciamo riferimento a concetti quali il pressing alto, la capacità di recuperare velocemente la palla, il sincronismo dei movimenti delle punte, il riciclo delle seconde palle che diventano immediatamente proposta offensiva (tutti concetti del calcio dei giorni nostri) dovremo rivedere le immagini di quell’incontro.

Di fronte alla modernità della dinamite biancorossa, i concetti cari al calcio uruguagio si mostrano del tutto anacronistici. I danesi portano letteralmente a spasso i loro dirimpettai, liberando sempre un uomo fronte alla porta. Non c’è centrocampista o difensore che a turno non riesca ad inserirsi, sfruttando i movimenti dei compagni telecomandati dall’intelligenza calcistica di Laudrup. L’inferiorità numerica che l’Uruguay è costretto a patire a causa dell’espulsione di Bossio è solo la conseguenza del senso di frustrazione che Francescoli e compagni han cominciato a vivere dal primo minuto.

Il 6-1 finale fa assurgere i danesi agli onori della cronaca. Sotto il sole cocente del giugno messicano, ai 2.200 metri di Ciudad Nezahualcoyoti, non è pensabile giocare meglio di così.
Dopo solo due partite la Danimarca è matematicamente qualificata alla seconda fase e l’idea di rappresentare la squadra simpatia comincia a lasciar posto ad ambizioni più importanti.

La terza gara del girone, da giocare contro i vicecampioni del mondo uscenti ed entranti, potrà esser archiviata senza patemi. Un’eventuale sconfitta, assolutamente da pronostico considerato il valore degli avversari, risulterebbe ininfluente.

Ma se c’è una cosa sconosciuta ai danesi, è il timore riverenziale.

La Danimarca, contro i tedeschi, prosegue nella propria divulgazione calcistica. Il 2-0 con cui liquida la pratica è la naturale conseguenza di una superiorità posta in essere senza alcun affanno.

Tre partite, tre vittorie. Calciatori al massimo della forma e un gioco scintillante.

Un gioco disegnato da Piontek che ci dimostra, per l’ennesima volta, come l’organizzazione non renda ostaggi i calciatori di fantasia.

Anzi, li valorizza.

Nella fattispecie, l’aspetto più affascinante è dato dalle movenze della coppia d’attacco.

Il movimento sul campo di Laudrup ed Elkjaer tende a formare una sorta di T rovesciata con il primo che oscilla, palla la piede, in orizzontale sulla trequarti e delinea i filtranti su cui si avventa il compagno di reparto, abile nel ricevere palla con controllo a seguire già orientato in funzione della giocata successiva.

Due pendoli che si muovo uno perpendicolare all’altro.

 Se i difensori avversari salgono in blocco, Laudrup trova modo di lanciare Elkjaer nello spazio.
Quando, viceversa, le difese avversarie si abbassano a protezione della porta, duettano tra loro grazie alla capacità di utilizzare ambo i piedi.

Le tre gare del girone eliminatorio hanno visto Elkjaer andare a rete 4 volte, con il compagno di reparto che al termine della prima fase padroneggia nel conto degli assist.

Tutto funziona alla grande nel meccanismo danese.

L’ottavo di finale, da giocare contro una Spagna sulla carta non irresistibile, rappresenta l’occasione di vendicare la sconfitta ai rigori patita immeritatamente nella semifinale europea di due anni prima.

In realtà una piccola spia si è accesa al termine dell’incontro con i tedeschi.

Frank Arnesen, assoluto dominatore e leader emotivo della squadra, è caduto nella trappola e si è visto sventolare ad un minuto dalla fine un cartellino giallo, assolutamente evitabile, che gli farà saltare l’ottavo di finale.

Li per lì non pare un grosso problema, considerate le ottime condizioni di Jesper Olsen, destinato a prenderne il posto.

Sino ad ora però la strada dei danesi non ha mai incontrato ostacoli.  Tutto è sempre filato nel migliore dei modi.

E così pare debba continuare stando alle prime fasi della gara con gli spagnoli.

La prima mezzora è da “solita Danimarca”.

Tre occasioni da goal e tanto dinamismo che manda in crisi la difesa iberica.

L’intervento con cui viene steso Klaus Berggreen in area di rigore sembra una resa di fronte ai continui assalti scandinavi.

KLAUS BERGGREEN – (Centrocampista)

Dagli 11 metri Jesper Olsen non sbaglia e la gara pare oramai segnata.

Se non che proprio un errore del più giovane degli Olsen spiana la strada al pareggio di Butragueno.

Il mondiale della Danimarca finisce in quel momento.

Elkjaer fallisce un paio di occasioni che sino al giorno prima avrebbe realizzato ad occhi chiusi, Laudrup si eclissa, Lerby e Berggreen sembrano accusare le fatiche di un calcio d’avanguardia giocato in altura con un caldo infernale. E Arnesen, ovvero l’uomo da cui andare nei momenti di difficoltà, non c’è.

Le espressioni dei calciatori si spengono man mano che El Buitre (4 volte) e compagni gonfiano la rete.

 Al fischio finale è 5-1 in favore della Spagna e il sogno danese si interrompe bruscamente.

Quella che sembrava una favola si trasforma improvvisamente in un qualcosa che ad altri latitudini verrebbe vissuto come un incubo.

Il clima di “hygge” fa sì che, nel contesto danese, la situazione non degeneri ma di sicuro la delusione è cocente.

La nazionale danese, entrata nella competizione con leggerezza e disincanto, ne esce allo stesso modo, quasi senza rendersene conto.

Da una palla persa ai limiti dell’area all’addio al mondiale il passo è breve.

La Danimarca, si sa, è l’unico paese al mondo con territorio completamente pianeggiante.

Sarà  un caso che alla vista della prima salita i ragazzi di Piontek si siano eclissati?

Con il senno di poi, molti punteranno il dito su un calcio dispendioso giocato in condizioni estreme oltre che su una spregiudicatezza tattica rivelatasi inopportuna.

La realtà ci dice altro. Ci dice che quel gruppo, nel biennio precedente al mondiale, si era abituato a dominare ogni partita e, una volta trovatosi in difficoltà, è venuto meno dal punto di vista nervoso.

A differenza di altre nazionali minori, che hanno vissuto exploit estemporanei, quella danese non si dissolverà all’esito del mondiale.

Resettata la mente, riuscirà a qualificarsi per la fase finale dell’Europeo 1988 al quale, tuttavia, arriverà con alcuni giocatori in età avanzata ed altri alle prese con problemi fisici.

Il ricambio generazionale, in paesi che non hanno alle spalle una storia calcisticamente importante, è sempre complicato e così, conclusi i fasti di una generazione di giocatori eccellenti molti dei quali vincenti nei club d’appartenenza, la favola danese volge al termine con il rammarico di un finale non propriamente lieto.

Da li in poi la nazionale sconterà un paio di anni di transizione ma tornerà competitiva ad inizio degli anni 90 quando, suo malgrado, verrà sorteggiata in un girone di qualificazione al campionato europeo che la vede opposta alla miglior Jugoslavia di sempre. Con un solo posto a disposizione è normale che a qualificarsi siano i “plavi”, nonostante agli scandinavi riesca di sbancare Belgrado a maggio del 1991, quando l’aria di guerra ha da tempo invaso i Balcani e le tensioni tra le diverse fazioni sono giunte al punto di non ritorno.

Il seguito lo conoscono tutti.

La Danimarca, in ossequio ad una risoluzione ONU che estrometterà gli slavi dalla competizione, verrà chiamata a partecipare al Campionato d’Europa.

E poiché a casa di Andersen non esiste fiaba senza lieto fine, alzerà il trofeo contro ogni pronostico.

BIO: Alessio Rui è nato e vive a San Donà di Piave-VE ove svolge la professione di avvocato. Dal 2005 collabora con la Rivista “Giustizia Sportiva”, pubblicando saggi e commenti inerenti al diritto dello sport. Appassionato e studioso di tutte le discipline sportive, riconosce al calcio una forza divulgativa senza eguali. Auspica che tutti coloro che frequentano gli ambienti calcistici siano posti nella condizione di apprendere principi ed idee che, fatte proprie, possano contribuire ad una formazione basata su metodo e coerenza, senza mai risultare ostili al cambiamento.

3 Responses

  1. Alessio, io la Danimarca l’ho ammirata in diretta televisiva, cosa che l’età di consentiva.

    All’epoca i miei tempi liberi erano dedicati ancora allo studio (all’età di 36 anni ho studiato analisi matriciale avanzata prevalentemente prima di andare a dormire).

    Ma due calciatori mi restavano in mente ad ogni fine partita: Laudrup e Elkjaer. Questi, come da te descritto, rappresentavano una coppia formidabile, poichè si completavano totalmente. Tu magistralmente evidenzi la logica della T rovesciata.

    All’epoca, gradevolmente succube del pensiero di Gianni Brera, amavo profondamente il prototipo del calciatore potente, tecnico e che sapeva anticipare i tempi, anche grazie all’intesa con il compagno “arciere”.

    Con le dovute differenze, affianco ad Elkjear Riva e Gullit. In modo diverso tutti e tre strappavano, andavano via e segnavano.

    Il miracolo Danimarca, è l’insieme casuale di una generazione di fenomeni. Non è una scuola. L’altra cosa che mi ha affascinato della Danimarca vittoriosa all’Europeo è la leggerezza mentale da te descritta.

    Un saluto.

    1. Gentilissimo Giuseppe,
      Ti ringrazio e approfitto dell’occasione per sottolineare che condivido tutte leTue osservazioni.

      Il movimento a T rovesciata piaceva molto anche a me ma è difficile ritrovarlo nei sistemi in voga oggi come è difficile trovare un Laudrp perchè vengono richieste altre funzioni.

      Come hai correttamente scritto, la Danimarca non ha una propia scuola calcistica ma negli anni 80 contava su una generazione di calciatori in grado di connubbiare leggerezza aerobica e conoscenze individuali e collettive.

      L’unico punto su cui (parzialmente) mi permetto di dissentire è il paragone Elkjar Gullit perchè quest’ultimo era solito sfruttare il contromovimento (Filippo magari mi correggerà) e la sua corsa non sempre era indirizzata verso la porta ma è una cosa irrisoria.
      Credo che uno con il controllo orientato di Elkjaer potrebbe, al pari di Boniek, eccellere anche nel calcio attuale.

  2. Alessio, per quanto riguarda Gullit, mi riferisco in particolare alla sua capacità di strappare e di mantenere la corsa. Senza questa caratteristica, il Milan non avrebbe vinto lo scudetto del 1988, considerando che il gol decisivo fu fatto proprio su una azione di potenza di Gulit.
    Ovviamente, quando si confrontano tre persone diverse, per quanto simili, queste non non saranno mai uguali.
    Ad averli oggi Elkjaer e Brighel, forse esalteremmo un po’ di più il modulo del contrattacco (non del contropiede da Fort Apache).

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