Novi Sad è una bella città che si estende nella pianura della Pannonia.
È il capoluogo della provincia autonoma della Vojvodina, un territorio appartenuto un tempo all’Impero austro-ungarico dal quale ha ereditato un certo rigore architettonico. È un crogiuolo di popoli: da sempre convivono serbi, croati, ungheresi, tedeschi, slovacchi e macedoni.
Dalle parti della frenetica Belgrado la gente che vive nella Vojvodina viene definita lenta per i modi e soprattutto per la lingua parlata che scioglie le vocali in un suono lungo. È la terra che ha dato i natali ad uno dei più grandi cestisti di tutti i tempi, Luka Jokić, originario di Sombor (fanno un buon formaggio lì), ma soprattutto a Vujadin Boškov, probabilmente il più influente allenatore dell’ex Jugoslavia. Il rapporto con la sua terra è sempre stato molto forte e chissà quante volte sarà salito sulla fortezza di Petrovaradin ad ammirare il panorama solcato dal Danubio, a un tempo maestoso e insidioso, che lo stava inghiottendo quand’era ancora un bambino, dal quale fu salvato dall’angelo custode Aleksandar, suo fratello, per tutti Aca.
Entrambi giocavano a calcio nel BSK Begeč.
Aca era noto per il suo talento ed era bravo anche a scuola. Durante una partita, mentre si abbeverava all’ombra di un albero, stramazzò al suolo.
Meningite fulminante dissero i dottori.
E la vita di Vujke cambiò, ma non il suo amore per il calcio che divenne la maniera per onorare il suo compianto fratello. Resterà la sua guida spirituale, la persona che ringrazierà ogni volta che ci saranno importanti successi.
Dopo la seconda guerra mondiale lasciò Begeč e andò a studiare a Novi Sad dove incontrò il suo mentore, che tanto lo volle nella sua squadra: Branislav “Bane” Sekulić. Riusciva a gestire bene il doppio impegno con tenacia e spirito di sacrificio, atteggiamento tipico di tanti grandi personaggi dello sport jugoslavo. Leggetevi qualcosa sul cestista Dražen Petrović e troverete la stessa testardaggine, tvrdoglavost, nella meticolosa e ossessiva voglia di perfezionamento. Tutto andava bene finché non arrivò il giorno di un torneo da disputare a Spalato. Quando Boškov disse che non avrebbe potuto prender parte alla trasferta Bane Sekulić ne chiese ragione. Vujke dovette spiegare che la morte del fratello fu uno shock terribile ed ognuno dei familiari cercò a suo modo di dare una risposta alla tragedia: la nonna, religiosissima, smise di credere in Dio; suo padre Boško attribuì al fudbal la colpa dell’avvenuto. Sekulić riuscì a convincere misteriosamente il padre che con queste parole diede il suo placet: «E va bene, che vada. Non so perché, ma le credo. Ma sappiate voi tutti, che Vujadin potrà giocare a calcio solo se sarà bravo a scuola. Se non lo sarà, niente da fare!»
La spuntò la testa dura di Sekulić e Vujke non solo divenne un ottimo giocatore ma il più grande della storia dei biancorossi della Vojvodina. Rifiutò le offerte delle due grandi di Belgrado, Crvena Zvezda e Partizan, perché troppo legato alle bionde pianure della sua terra e alla sua città. Con la nazionale dei plavi vinse l’argento ad Helsinki, dove la Jugoslavia arrivò a confrontarsi in finale contro l’Ungheria che dominava il calcio internazionale. Il rapporto con la sua amata Novi Sad si interruppe quando la sua gamba fece crack. Capì che non poteva dare molto alla sua squadra e che era arrivato il momento di cambiare aria. Con Todor Veselinović arrivò alla Sampdoria nella stagione 1961/1962. Non fu un’esperienza indimenticabile ma promise che avrebbe rifondato il debito con quei colori.
Andò in Svizzera a finire la sua carriera nello Young Fellows. Di quella importante esperienza si ricordano due cose.
La prima, uno dei suoi aforismi più celebri :«Svizzera non è paese di calcio perché Svizzera paese troppo ricco per calcio.»
La seconda un incontro, importante, con Adolf Patek, di cui conserverà il suo fischietto di allenatore. Vujke aveva una visione a 360°del campo da gioco e sapeva leggere con innata sapienza i momenti della partita. I guai fisici di Vujke e quelli di Patek si allinearono sulla traiettoria del destino in un giorno come tanti, durante una sessione di allenamento :” «Ehi Vujke tieni…vai avanti tu!» disse l’austriaco. Vujadin lo guardò con aria stranita poi capì, afferrò il fischietto e se lo mise al collo ringraziando il suo allenatore, dopo di che fischiò fermando la partitella che con i suoi compagni stava disputando e riunì tutta la squadra attorno a sé. Patek lo guardò parlare mentre si allontanava, aveva capito che quel giorno, sotto la pioggia di Zurigo era nato un allenatore. Il giorno dopo Patek parlò con il presidente Kohler e dette le dimissioni, adducendo problemi fisici che non gli permettevano di allenare. Kohler lo guardò torvo e con una punta di rabbia li domandò:«Ed ora chi allenerà la squadra?» «Presidente, questo non è un problema…il nuovo allenatore è già a Zurigo.»”( da Pallone entra quando Dio vuole di Danilo Crepaldi).
Nel 1964 tornò nella sua amata Novi Sad alla guida del klub che lo aveva reso celebre. I primi anni furono faticosi perchè Boškov volle imporre uno stile manageriale alla squadra, all’inglese per capirci, con investimenti importanti nel settore giovanile e nelle strutture societarie, come lo stadio Karađorđe che fu rinnovato nel 1967. Risolse alcuni problemi di spogliatoio, come la diatriba tra Zarko Nikolic e Ivica Brzic che “obbligò a diventare amici” mandandoli a fine stagione in vacanza a Dubrovnik. Fine psicologo Vujadin che compì Il suo capolavoro nella stagione 1965/1966, l’anno del VOSA (Vojvodina Šampion), ossia della conquista del titolo jugoslavo che portò i biancorossi a diventare la quinta sorella nella terra degli Slavi del Sud. In quella stagione il calcio jugoslavo potè vantarsi della prestigiosa cavalcata del Partizan che arrivò alla finale di Coppa dei Campioni contro il Real Madrid, persa 2 a 1 dopo essere passato in vantaggio.
L’anno dopo toccò al Vojvodina misurarsi con la massima competizione europea.
Arrivò fino ai quarti di finale, sconfitta dai futuri campioni del Celtic, ma agli ottavi eliminò in una partita politicamente tesa l’Atletico Madrid. Per Boškov fudbal je fudbal politika je politika (calcio é calcio politica é politica), ma non la pensarono così gli ufficiali di polizia che resero difficile il suo arrivo a Madrid per il ritorno della sfida. Ma alla fine, al di là delle ingerenze della politica il calcio e la squadra di Novi Sad trionfarono su tutto.
Il suo rapporto con il Vojvodina finì nel 1971 allorquando divenne commissario tecnico della Jugoslavia dove impose la sua visione di calcio, scevra dalla politica delle federazioni delle varie repubbliche socialiste che la caratterizzavano.
Un momento di svolta nella sua carriera fu l’arrivo in Olanda, al Den Haag, squadra de L’Aja. In quegli anni il calcio olandese, nel suo momento apicale, vinceva in Europa con Feyenoord e Ajax e aveva perso un mondiale dominato. L’impatto con il calcio olandese fu assolutamente prolifico, segnato da un decimo e sesto posto e soprattutto dalla vittoria della Coppa d’Olanda, uno dei successi più importanti dei Cigni. Inevitabile fu il salto di qualità e l’arrivo al Feyenoord dove tuttavia Vujke non lasciò il segno.
La Spagna fu il passaggio successivo e precisamente in Aragona, a Saragozza, sulle rive dell’Ebro.
Non fu una stagione facile, la squadra arrivò al quattordicesimo posto ma Vujke ebbe il merito di portare in Spagna il forte difensore centrale Radomir Antić, che dall’uomo di Novi Sad apprese il mestiere di allenatore. Sarà l’unico ad allenare le tre grandi di Spagna Real Madrid, Atletico Madrid (con il quale vincerà la Liga nel 1995/1996) e Barcellona.
Durante una cena tra amici nella sua casa di Almeria annunciò subitaneamente l’ingaggio come allenatore del Real Madrid CF, quello che definirà “Stato dentro stato”.
Era la stagione 1979/1980.
Il suo Real era ritenuto a fine ciclo ma costituito da giocatori del calibro di Stielike, Cunningham, Santillana e Camacho.
Il suo calcio fu fresco, intraprendente, votato all’attacco.
Vinse 2 a 0 a Barcellona tra gli applausi del pubblico catalano e sgretolò l’Atletico per 4 a 0 a poche giornate dalla fine segnando l’allungo decisivo sulla Real Sociedad. Vinse la Liga e la Coppa del Re in finale contro il sorprendente Castilla, praticamente la succursale de la Casa Blanca.
Da quelle parti però mancava da anni il trofeo più ambito, quella Coppa dei Campioni che fu conquistata per l’ultima volta nel 1966 contro i crno-beli del Partizan. Ci vorranno ancora tanti altri anni per un trionfo del Madrid e il protagonista sarà un altro serbo, Predrag Mijatović.
Dopo aver eliminato in semifinale l’Inter, gli uomini Boškov affrontarono gli inglesi del Liverpool.
Il Real giocò un’ottima partita ma al 77’ Kennedy infilò Agustin Rodriguez e la notte di Parigi fu amara per Vujke.
In quel momento probabilmente si ruppe qualcosa e il secondo posto alle spalle della Real Sociedad non fece che confermare la fine dell’idillio tra l’uomo di Novi Sad e l’ambiente madridista che si consumò a marzo dell’anno dopo. Tra i suoi meriti quello di aver scoperto il talento di un’autentica bandiera delle merengues, Emil “El Buitre” Butragueño.
Dopo la buona avventura allo Sporting Gijon che puntava ad arrivare in Europa (ci riuscirà qualche anno più tardi e giocherà contro il Milan in Coppa UEFA), arrivò in Italia come direttore tecnico dell’Ascoli ambiente complicato in cui visse tra alti e bassi, come ebbe a dire una volta :”Ascolano o con piedi sottoterra, o con piedi sopra cielo…mai ascolano con piedi sulla terra!”
Ma quella esperienza, dove fu coadiuvato da Aldo Sensibile nel ruolo di allenatore, fu importante per la sua nuova meta, sulle rive del Tirreno, alla corte di Paolo Mantovani. Il petroliere nutriva grandi ambizioni per la sua Sampdoria e Vujke fu l’uomo giusto al momento giusto, lui che era stato per tanto tempo nell’orbita della Vecchia Signora e che fu silurato da Agnelli perché “comunista”.
A Genova arrivarono i successi che la città non vedeva da anni, sette stagioni indimenticabili che proiettarono i blucerchiati nell’elite del calcio nostrano e non solo. Due Coppe Italia, la Coppa delle Coppe del 1990, vinta a Goteborg per 2 a 0 contro l’Anderlecht, e soprattutto lo storico Scudetto del 1990/1991. Mai convertito alla zona, che quegli anni veniva predicata come un nuovo kerigma, disse dopo un Cagliari-Sampdoria finito 0-0: «Io ti dico, anche se tu non sei d’accordo, come potrei io giocare a zona quando io ha Vierchowod y Mannini i campioni del mondo della marcatura a uomo…sarei pazzo!»
Trama mitologica quella dello scudetto blucerchiato, costruita su un gruppo forte, coeso e, aggiungerei, intelligente che comprese il momento di difficoltà dopo le sconfitte contro il Torino e il Lecce e si incontrò in un ristorante per parlare senza filtri. Boškov, al pari del ds Borea direttore sportivo, ne era a conoscenza e quel confronto ebbe una spinta importante per la lotta al titolo a cui il tecnico della Vojvodina credeva, dalla prima giornata. Mise in fila Juventus, Milan e infine, il 5 maggio l’Inter del Trap a San Siro, un blitz firmato Vialli e Dossena. Così parlò ai cronisti del centrocampista doriano in una delle sue laconiche affermazioni :«Dossena è come fenice, giocatore y uomo rinato da sue ceneri.» Era quella la Samp dei gemelli del gol Vialli e Mancini, di Cerezo, di Katanec e dell’ucraino Mikhailichenko, quest’ultimo mai ambientato a Genova. Il debito con la Samp era stato onorato. L’anno dopo i blucerchiati giocarono la Coppa dei Campioni e Boškov era intenzionato a riscattare la sfortunata finale di Parigi persa contro il Liverpool dieci anni prima. L’impegno europeo tolse energie alla compagine genovese che non fu mai capace di difendere il titolo italiano. Arrivò invece fino in fondo in Coppa dei Campioni dove gli uomini di Vujke si trovarono contro il Barcellona di Cruijff con cui aveva perso la finale di Coppa delle Coppe di Berna del 1989. La Samp fece una gran bella partita, fu salvata in più di un’occasione da Pagliuca che nulla potè sul bolide di Rambo Koeman al 112’.
Fu la fine di un ciclo e probabilmente l’ultimo grande atto della carriera di Vujke che allenò la Roma, il Napoli, ancora la Sampdoria e il Perugia. Queste ultime esperienze furono caratterizzate dal rapporto difficile con i presidenti che alla fine rovinarono il suo lavoro, che spesso definiva come una pianta che ha bisogno di crescere prima di poter fare vedere i frutti. Prima di chiudere la sua carriera, accettò la guida per la seconda volta della Jugoslavia che portò ad Euro 2000, passando anche dalla sfida thrilling del Maksimir del 9 ottobre 1999 contro la Croazia. L’avventura dei plavi in Belgio e Olanda terminò ai quarti di finale dove la Jugoslavia fu affossata dai padroni di casa dell’Olanda per 6 a 1.
Nella sua vita straordinaria Vujke ha potuto contare sulla costante presenza della sua famiglia, sua moglie Jelena e sua figlia Aleksandra, spesso decisivi nelle sue scelte.
Vujadin Boškov da Novi Sad è stato un grandissimo del suo tempo, uomo di grande cultura che visse di calcio e per il calcio. Resteranno le sue imprese, soprattutto quello scudetto vinto a Genova, che valse forse più delle finali perse. Se n’è andato il 27 aprile 2014 a causa di una forma aggressiva di Alzheimer. Lassù, nell’alto dei cieli, sicuramente ricorda le sue gesta, le vittorie e le sconfitte con suo fratello Aca, con il suo maestro Bane Sekulić, con Radomir Antić e con il suo amato Gianluca Vialli, che crebbe come un figlio, perché prima o poi “Allenatore torna sempre con sua squadra”, tra gli uomini che ha da sempre amato.
Come ha sempre fatto Vujke da Novi Sad.

BIO: VINCENZO PASTORE
Pugliese di nascita, belgradese d’adozione, mi sento cittadino di un’Europa senza confini e senza trattati.
Ho due grandi passioni: il Milan, da quando ero bambino, e la scrittura, che ho scoperto da pochi anni.
Seguire lo sport in generale mi ha insegnato tante cose e ho sperimentato ciò che Nick Hornby riferisce in Febbre a 90°: ”Ho imparato alcune cose dal calcio. Buona parte delle mie conoscenze dei luoghi in Gran Bretagna e in Europa non deriva dalla scuola, ma dalle partite fuori casa o dalle pagine sportive[…]”
Insegno nella scuola primaria, nel tempo libero leggo e scrivo.