Non deve sorprendere che una delle prime esperienze da allenatore, di un uomo cresciuto a Trieste, idolo incontrastato della città di Pescara, innamorato dei calciatori croati, si sia materializzata sulla panchina dell’Adriese, la squadra della città che ha dato il nome al mare Adriatico.
“Adriatico” come il nome dello stadio all’interno del quale le sue gesta hanno toccato l’apice.
Una pagina importante della vita di Giovanni Galeone ha avuto come sfondo quella parte di mediterraneo che nel dopoguerra divideva l’ovest dall’est europeo; una sorta di frontiera, ideologica ma anche sociale, che ai suoi occhi non rappresentava una divisione ma un lasciapassare per il calcio a cui si ispirava.
Nato a Napoli il 25 gennaio 1941, in una famiglia di condizioni agiate, trascorre infanzia ed adolescenza nel quartiere Servola di Trieste. Un quartiere in cui, secondo i suoi racconti, i ragazzi che giocano in strada non si abbassano a raccogliere la sfida dei pari età che risiedono in centro, perché troppo più forti rispetto a questi ultimi.
Le cose cambiano con l’arrivo dei profughi croati non allineati al regime di Tito perché questi nascondono la palla a Galeone e ai suoi compagni di gioco.
Lo fanno non con solo con il dribbling e con la fantasia, ma, soprattutto, grazie al controllo di palla, rigorosamente a seguire, oggi ridenominato “orientato”, con il quale i giovani slavi indirizzano se stessi e la sfera verso la porta avversaria.
Sarà questo il concetto base del calcio di Galeone, il cui amore per i calciatori balcanici lo accompagnerà per tutta l’esistenza.
Perché un controllo orientato permette di aggirare l’avversario senza perdere tempi di gioco e, soprattutto, direziona chi conduce la sfera in modo naturale verso la porta.
Un allenatore amante del palleggio più che del possesso, della capacità di veleggiare più che di occupare lo spazio con forsennati pressing.
Definito da alcuni anticonformista per via dei suoi interessi letterari, anch’essi coltivati nella parentesi triestina che lo infarcisce pure di concetti cestistici, sarà visto con circospezione per un approccio da esteta, amante delle cose piacevoli (senza peraltro eccessi od ossessioni), che poco si combina con i costumi del calcio dei suoi anni.
Di idee tipicamente progressiste, non parrà vero ai suoi detrattori rinfacciargli il suo essere “diverso” ad ogni sconfitta, incuranti degli immensi meriti e dei tanti “miracoli” sportivi compiuti in carriera.
Abituato a non nascondersi dietro dichiarazioni da zero a zero, non disdegnava critiche e giudizi.
Lo stile, tuttavia, non era mai aggressivo.
Gale preferiva la punzecchiatura alla polemica, i toni non erano mai alti a differenza dei contenuti, spesso sovradimensionati per l’uditorio di quegli anni.
Era sempre gradevole all’ascolto mentre dissertava di tecnica e di qualità del gioco.
Concetti esposti in maniera garbata, senza pretesa di insegnare, argomentati con conoscenze assolute talvolta condite da iperboli di pensiero
“Purtroppo ascolto sempre più spesso allenatori che, quando vincono, parlano di carattere e, quando perdono, si appellano agli episodi”
In quest’affermazione c’è tutto il pensiero di Galeone per il quale il football non può prescindere dal gioco e dai valori tecnici.
Non gli è mai stato interessato partecipare al dibattito se il gioco contasse più degli interpreti (o viceversa) convinto com’era che i due fattori fossero interdipendenti.
Ciò premesso, ha dichiarato più volte che, sino alla serie B, un football organizzato, meglio se praticato da una compagine votata all’offensiva, è sufficiente per primeggiare.
In serie A, invece, “con il cuore e con la grinta strada non se ne fa; è necessaria la qualità.”
Per il suo modo di intendere il calcio, il tridente d’attacco era imprescindibile.
Un tridente, peraltro, non sempre composto da un centravanti e due ali.
In alcune esperienze ha schierato un trio offensivo sullo stile della scuola latinoamericana, composto non da due ali ma da due punte larghe con un vertice basso al posto del centravanti (enganche) a cui affidava il compito di rifinire la proposta offensiva e legare le fasi di gioco.
Il passaggio al centravanti vero e proprio si compirà a Perugia quando consegnerà a Marco Negri le chiavi dell’attacco, non solo per le innate qualità realizzative ma, soprattutto, per la capacità di giocare con ambo i piedi e di muoversi in correlazione ai compagni.
Irrinunciabili, nella sua proposta calcistica, le due mezze ali di centrocampo, di cui almeno una abile nel filtrante. Alla coppia di mezze ali non rinuncerà nemmeno durante l’epoca del sistema di gioco 1-4-4-2 diventato, dopo i successi di Sacchi, il riferimento del calcio italiano.
Galeone non abiurerà mai all’idea balcanica con le suddette mezze ali a cui chiedere di giocare rigorosamente palla a terra, incurante della fisicità e dell’atletismo sempre più imperanti nel football nostrano.
Il calcio praticato dalle sue squadre era effettivamente verticale, intendendosi con questo termine la ricerca di linee di passaggio in avanti, create da sincronismi in velocità e poste in essere grazie alla tecnica degli interpreti.
Un concetto diametralmente opposto rispetto all’idea odierna secondo cui la verticalità viene associata al ribaltamento su giocata lunga da parte di compagini abituate a rimanere “basse”.
Spesso criticato per l’atteggiamento “allegro” delle sue squadre, rivendicava l’efficacia delle sue idee rispetto al valore delle rose a disposizione.
Uno dei suoi cavalli di battaglia risiedeva nella circostanza secondo cui nel suo primo anno di serie A il Pescara avesse raggiunto la salvezza nonostante un numero di sconfitte più elevato rispetto alla stagione successiva, durante la quale perse poche gare grazie ad un atteggiamento accorto ma retrocedette per non avere osato quando avrebbe dovuto.
La linea difensiva, rigorosamente a quattro, doveva rimanere alta con i terzini in costante proiezione offensiva.
Parlargli di difesa a cinque aveva quale effetto quello di rendere il suo volto improvvisamente malinconico.
Per uno come lui, abituato ad allenare i calciatori con l’intento di porli nella condizione di opzionare la giocata di volta in volta più adatta, l’idea del binario, con esterni a cui viene chiesta attitudine all’esecuzione e non al pensiero, non aveva ragione d’esistere.
Non che Galeone non allenasse la fase difensiva, questo no.
Il gusto per il gioco e per l’estetica lo portava tuttavia a prediligere la fase di attacco con l’effetto di coinvolgere in essa anche i difensori.
La persona che più di tutti ammirava nel calcio era Nils Liedholm, con il quale condivideva l’amore per la tecnica.
In occasione di un’amichevole precampionato contro la Roma, quando tutti si chiedevano chi fosse il neo acquisto del Pescara Sliskovic, fu proprio il Barone a complimentarsi per l’acquisto definendolo “gran giocatore”.
Quel breve dialogo rimarrà uno dei ricordi più belli nella vita di Galeone. L’idea che Liedholm conoscesse Sliskovic, ignoto a molti addetti ai lavori, lo rendeva particolarmente orgoglioso del suo amore per il calciatore bosniaco.
Dopo le esperienze sulle panchine di Pordenone ed Adriese, Galeone frequenta il supercorso di Coverciano durante il quale stringe amicizia con Arrigo Sacchi con il quale duellerà per anni, prima alla guida della Spal e, successivamente, del Pescara.
La stagione 1986-87 è lo spartiacque nella carriera di entrambi.
Il tecnico di Fusignano fa breccia nel cuore di Berlusconi che ammira le gesta del suo Parma a cui, tuttavia, non riesce il salto di categoria che tocca invece al Pescara di Galeone, ripescato dalla serie C, che trionfa all’esito di uno dei tornei cadetti più competitivi di sempre grazie alla vittoria all’ultima di campionato proprio contro il Parma.
È l’inizio di una delle più belle storie d’amore nella storia del calcio italiano.
La città abruzzese si consegna spiritualmente al suo “profeta” che innesta il massimo campionato di concetti nuovi, di comportamenti anticonformisti ma sempre educati e, soprattutto, di un calcio dall’altissimo livello estetico.
Oltre al già citato Sliskovic, al gruppo della B si aggiunge Leo Junior, a cui l’allora capitano Gian Piero Gasperini cede la fascia di capitano dopo un solo allenamento.
Sono gli unici acquisti richiesti da Galeone che predilige la qualità alla quantità e sa che il dinamismo limitato dei due (Junior per questioni di età, Sliskovic per balcanica insolenza) è ben compensato dalla bassa età media del resto del gruppo.
L’inizio di campionato è da sogno, con la vittoria a San Siro contro l’Inter di Trapattoni in una di quelle giornate in cui risulta impossibile negoziare con Baka Sliskovic, assoluto protagonista alla scala del calcio.
Nonostante alcuni capitomboli roboanti il Pescara si salva, aiutato dal fatto che, in previsione dell’allargamento a 18 squadre, quell’anno siano previste solo due retrocessioni.
Non gli riuscirà l’impresa nell’annata successiva, nonostante il trio di brasiliani composto da Junior, Edmar e Tita con l’ultimo capace di distribuire prodezze tra cui una tripletta a Roma.
La sua carriera proseguirà a Como ma poiché il lago, anche se bello, non è paragonabile al mare, il richiamo di Pescara lo riporta in riva all’Adriatico dove nel 1992 centra nuovamente la promozione con una squadra oggettivamente non spendibile nei pronostici.
Si ritrova nuovamente in A con un anno di anticipo sulla tabella di marcia ed un gruppo di giocatori che non sono pronti al grande salto. Gli riescono pure un paio di colpi importanti ma stavolta le cose non vanno bene.
Sliskovic, rispetto alla prima esperienza, ha cinque anni in più e sembra più a suo agio nelle lunghe chiaccherate notturne piuttosto che in campo.
Partiti per la Francia con l’indicazione di acquistare Boli, i dirigenti abruzzesi tornano in Italia con Mendy…
Il Borgonovo che, per tanti anni aveva inseguito, è lontano parente di quello di Firenze mentre Dunga, che nei successivi cinque anni sarà capitano del Brasile campione e vicecampione del mondo, non è il “suo tipo” di centrale di centrocampo. Dell’interdizione, della grinta e del carattere a Galeone interessa poco se non si “vedono” le linee di passaggio che piacciono a lui.
Il pronto riscatto avverrà ad Udine, altra città in cui ha speso molti anni della sua vita, dove subentra nella stagione 94-95 dopo un terzo di campionato con la squadra ancorata a metà classifica.
L’impatto su quell’Udinese è immediato.
Trasforma gli esterni alti (Helveg) in terzini per rendere la squadra a trazione anteriore, ripristina le mezze ali e, con Pizzi schierato nel ruolo di enganche, riporta la squadra in serie A giocando un calcio estremamente spettacolare.
Peccato che alcune divergenze con la dirigenza ci abbiano privato del sequel nella massima serie.
Poco male perché a chiamarlo è l’ambizioso Perugia di Gaucci che non bada a spese nell’allestimento di una compagine plasmata sulle idee del tecnico che si affida alla tecnica in mezzo al campo (Allegri, Giunti) ed, a suon di reti, conquista la quarta promozione in carriera.
È una squadra, quella perugina, che foraggia Marco Negri di occasioni da goal che il centravanti trasforma ben coadiuvato dai compagni di riparto.
Il “profeta” diventa beniamino della tifoseria al punto di superare nelle simpatie dei perugini il presidente che non prende bene la cosa e l’anno successivo si produce in una guerra al tecnico, definito troppo offensivista e spregiudicato, nonostante la squadra alberghi a distanza di sicurezza dalla zona retrocessione. Una squadra che Galeone ama anche perché in estate ha addizionato al gruppo quella ventata balcanica che Milan Rapajc porta con sé.
Diventato troppo amato per coesistere con Gaucci, il nostro subisce il più incredibile degli esoneri e la squadra, che con lui navigava verso una tranquilla salvezza, retrocede tra problemi interni e nostalgia per il vecchio mister.
Farà in tempo a tornare altre due volte sulla panchina pescarese prima di salvare l’Udinese, chiamato al capezzale della squadra ad otto giornate dalla fine con lo spettro di una probabile quanto clamorosa retrocessione, nell’anno in cui partecipa alla Champions League.
Più soddisfazioni che delusioni in carriera anche se l’esperienza negativa di poche giornate alla guida del peggior Napoli degli ultimi 50 anni rimarrà il suo cruccio, unitamente alla mancata chiamata di una grande squadra a cui è andato vicino in varie occasioni se è vero, come è vero, che più di un presidente di club importanti lo ha cercato senza però trovare il coraggio di affidargli la guida tecnica.
Ha vissuto gli ultimi anni venendo citato quale mentore di Allegri, Gasperini e Gianpaolo anche se i primi due, con l’eccezione di Allegri a Cagliari, mai hanno portato sul campo i suoi principi di gioco.
Si è sempre distinto per coerenza ad eccezione di quando lui, esteta del calcio, si è speso per difendere il suo amico e figlioccio Allegri da chi rimproverava a quest’ultimo un calcio poco spettacolare ed eccessivamente speculativo.
Ma si sa, quando si tratta di difendere un amico, la coerenza può passare in secondo piano…

BIO: Alessio Rui è nato e vive a San Donà di Piave-VE ove svolge la professione di avvocato. Dal 2005 collabora con la Rivista “Giustizia Sportiva”, pubblicando saggi e commenti inerenti al diritto dello sport. Appassionato e studioso di tutte le discipline sportive, riconosce al calcio una forza divulgativa senza eguali. Auspica che tutti coloro che frequentano gli ambienti calcistici siano posti nella condizione di apprendere principi ed idee che, fatte proprie, possano contribuire ad una formazione basata su metodo e coerenza, senza mai risultare










2 risposte
“Il football non può prescindere dal gioco e dai valori tecnici.”
Con questa frase bisogna sempre misurarsi quando si analizzano le partite e soprattutto l’intero campionato.
Aggiungerei che la rosa va costruita con la “logica del mosaico”, ogni tessera deve essere funzionale al gioco che si vuole realizzare.
Le tessere sbagliate o rovinano il disegno del mosaico o lasciano un’area vuota.
Alessio, come al solito è gradevole leggerti ed anche molto istruttivo.
Ma per essere sincero questo è un complimento collettivo rivolto anche agli altri autori di questo blog.
Grazie Giuseppe.
Galeone è stato una figura particolare.
Ha sempre predicato un football propositivo, offensivista, rifuggendo da qualsiasi stereotipo sull’importanza del primo non prenderle.
Nel farlo, tuttavia, è riuscito a mantenere (e ha cercato di tramandare) una visione romantica del football.
Fatico ad individuare un tecnico, tra gli attuali, che gli somigli.
Mi verrebbe da pensare a Gianpaolo ma non ha la stessa personalità.
Credo che l’unico potenziale suo erede sia De Zerbi che mi risulta lui ammirasse già più di un decennio orsono.
Ci mancherà.
Alessio