Jaap Stam pare uscito da un’epoca ben antecedente rispetto a quella in cui è stato protagonista, vale a dire l’epoca dei marcatori con i muscoli e la schiena dritta, trapiantato nel calcio ipermediatico del nuovo millennio. Un corazziere d’Olanda, ruvido e inesorabile, che non si curava di dolore né di intemperie. Non incarnava la grazia barocca del difensore moderno, ma univa ferocia ed efficacia con una maestria che sfiorava l’arte antica della marcatura a uomo.
Calciatore e uomo vecchia scuola, aveva l’aria di uno che non cercava scuse. Pelle da birra olandese, occhiaie perenni, cranio lucido come una lastra d’acciaio. A ventisei anni arrivò al Manchester United, già completamente calvo. Aveva saltato le accademie dorate: era cresciuto tra gli amici, la birra del venerdì e le partite giocate con le ginocchia sporche di erba vera.
Stam era figlio di un calcio che non c’è più, e forse non c’è mai stato del tutto. Giocava come viveva: senza rumore. Accorciava sul diretto avversario con una precisione quasi chirurgica. Non scivolava, non serviva. Leggeva il gioco, arrivava prima. E se serviva, cancellava l’uomo con la palla inclusa. «Ronaldo? Non mi ha mai creato problemi», ha detto nel 2012 del Fenomeno.
Era veloce. Maledettamente veloce per la mole che si portava addosso. Ma soprattutto era giusto. Mai un rosso diretto in carriera. Un gigante che incuteva timore senza fare il bullo. Anche perché non ne aveva bisogno. Lo hanno definito glaciale, ma chi lo conosceva parla di un uomo tranquillo, quasi timido. Un padre di famiglia che si presentava con la voce bassa e la stretta di mano forte. Non era un cattivo. Solo uno che padroneggiava l’antica arte della difesa.
Jaap Stam è stato un uomo schietto, alieno alle superfluità. “Bando alle ciance” pare il suo motto naturale. Non che in campo mancasse di eleganza: sapeva alternare il colpo rude alla giocata pulita, secondo l’urgenza della contesa. Ma fu fuori dal campo che la sua essenza si fece più netta. Emblematico, in tal senso, un aneddoto raccontato da Sir Alex Ferguson.
“Il giorno della firma del contratto, lo aspettavo nel mio ufficio… entrò praticamente senza bussare, mi disse buongiorno e si sedette al tavolo con il suo procuratore. Rimasi colpito da quella scena, perché di solito i giocatori quando entravano nel mio studio erano intimoriti. Cominciai a parlare del contratto, ma il suo viso era assente, non mi ascoltava. Dopo un po’ mi alzai per fargli vedere il museo dello United, ma lui rimase seduto e disse: “Scusi Mister, ma a me di tutto questo non frega niente. Mi faccia firmare il contratto perché voglio cominciare a vincere”. Rimasi sbalordito!!! Mai nessuno si era rivolto a me in questo modo. Mi piaceva… era un tipo deciso, che sapeva quello che voleva. Gli feci firmare il contratto, ci facemmo le foto di rito, e prima di andare via disse: ” Non si preoccupi… se quest’anno qualcuno riesce a superare Roy Keane, a centrocampo, poi dovrà vedersela con me. Stia tranquillo”. Immediatamente pensai che avevo preso uno disposto a fare la guerra per me. Avevo preso uno da Manchester United”.
Stam approdò in Premier sul finire degli anni Novanta, quando il campionato inglese era ancora campaccio più che palcoscenico, duro come le caviglie dei suoi mediani. Era un tempo in cui la globalizzazione non aveva ancora tramutato il football in baraccone patinato, e il politically correct non dettava ancora le interviste e i rapporti di spogliatoio.
Paradossale, ma prima dei 26 anni, Jaap Stam era pressoché ignoto ai più. In un’epoca in cui internet era privilegio di pochi e gli highlights si vedevano giorni dopo, era nome noto solo agli addetti ai lavori più meticolosi. Al Manchester United non solo si affermò: vinse tutto ciò che c’era da vincere. Diventò presto uno dei centrali più temuti del globo, uno che marcava col battito delle sopracciglia, non con le urla. Prima di passare alla Lazio, perse la Supercoppa Europea proprio contro i biancocelesti di Sven-Göran Eriksson. Ironia della sorte. Celebre l’alterco con Simone Inzaghi, che ritrovò poi come compagno a Roma. Gli sfottò nello spogliatoio non mancarono: sembrava che Stam dovesse trasformarsi in suo incubo notturno. Ma sono cose di campo, che iniziano e finiscono con il fischio dell’arbitro. A Roma, sponda Lazio, si fuse con l’ambiente: fu accettato, rispettato, osannato. In tre stagioni, conquistò una Coppa Italia, fianco a fianco con altri granitici mestieranti del mestiere difensivo: Couto e Mihajlović. Una linea Maginot coi tacchetti.
Al Milan, finalmente, la coppia con Alessandro Nesta divenne realtà. Due modi diversi di intendere l’arte del marcare. Ma, incredibilmente, vinse solo una Coppa Italia. La finale di Istanbul contro il Liverpool ancora oggi grida vendetta. Una rimonta illogica, uno psicodramma calcistico, acuito dall’ingiustificato mancato rosso a Hyypiä sul 3-0 per i rossoneri. Quel Milan era troppo forte per perdere. Eppure perse. Stam, tra i pochi esenti da colpa, fu vittima più che protagonista. Gli infortuni lo limitarono, sì, ma la sua tenuta resta scolpita nel marmo dei grandi difensori. In Italia, tante stagioni, tanti duelli, pochi trofei.
Il culmine della sua indole da Highlander, Jaap Stam lo toccò in una sera d’estate del 2000, in uno stadio che sembrava scivolare piano nel tramonto europeo. Si giocava Olanda–Repubblica Ceca e gli Oranje erano favoriti. Ma davanti avevano una squadra vera, con dentro muscoli, talento e quella voglia feroce di non essere da meno. In avanti, per i cechi, c’era Jan Koller: due metri di bontà rurale, ma con le caviglie affilate di chi sa come si gioca. A lui, Stam concede dieci centimetri, e quella, per uno come Jaap, è già una questione personale.
Quello che accade in campo supera perfino il battibecco tra Davids e Repka, sedato con sguardo da samurai dal solito, inarrivabile Pierluigi Collina. Ma l’episodio che resta, e che diventa istantanea, è lo scontro tra giganti. Koller sfugge una prima volta, colpisce la traversa. Stam stringe i denti e, da quel momento, promette a se stesso che quel centravanti non toccherà più palla. Poi lo scontro frontale: testa contro testa, e ad avere la peggio, incredibilmente, è il roccioso olandese. Sopracciglio spaccato, sangue che cola come in un vecchio western.
Qualsiasi altro giocatore avrebbe chiesto il cambio, o almeno si sarebbe concesso una smorfia. Stam no. Cammina verso la panchina come se nulla fosse, si fa medicare da un sanitario con il coraggio in faccia e il filo in mano. Gli mettono ago, pinza e punto, come si faceva una volta nelle corride o nei bordi ring dei pugili sgonfiati. Lo sguardo di Stam, mentre lo ricuciono, non dice nulla. Non dolore, non sorpresa. Solo fastidio, forse per aver perso tempo. Sembrava più una scena tagliata da un film di Dario Argento, con il volto gelido del protagonista che non ha bisogno di parole per spiegarsi. Solo cicatrici da portare con orgoglio.
Stam è stato un difensore totale, uno che non si accontentava di contenere: imponeva. Eppure, nel Milan forse più forte dell’era moderna, quello che a Istanbul vide svanire una Champions già scritta, Stam non raccolse quanto avrebbe meritato.
Giocò bene, anzi benissimo. Si intese alla perfezione con Nesta, ma restò sempre in quella zona d’ombra che il destino, quando si diverte, riserva anche ai migliori. In un calcio che cominciava a vestirsi di estetica e telecamere, Stam è rimasto un artigiano ruvido, più vicino al fabbro che all’architetto.
Uomo d’altri tempi, non è stato mai espulso per rosso diretto. Non per mancanza di foga, ma per senso della misura. E forse è questo il tratto che più lo definisce: la misura nell’eccesso, la ferocia nella correttezza. Di lui resteranno le cicatrici, vere e simboliche, e quella dignità silenziosa che è merce rara.

BIO: VINCENZO DI MASO
Traduttore e interprete con una spiccata passione per la narrazione sportiva. Arabista e anglista di formazione, si avvale della conoscenza delle lingue per cercare info per i suoi contributi.
Residente a Lisbona, sposato con Ana e papà di Leonardo. Torna frequentemente in Italia.
Collaborazioni con Rivista Contrasti, Persemprecalcio, Zona Cesarini e Rispetta lo Sport.
Appassionato lettore di Galeano, Soriano, Brera e Minà. Utilizzatore (o abusatore?) di brerismi.
Sostenitore di un calcio etico e pulito, sognando utopisticamente che un giorno i componenti di due tifoserie rivali possano bere una birra insieme nel post-partita.