Ho scritto queste considerazioni perché sono rimasto colpito dalla convinzione con cui, nel suo articolo, pubblicato su Sportweek sabato scorso, il giornalista Sebastiano Vernazza, spiegava quella che è una delle concause della crisi del calcio italiano.
L’Autore inizia il suo articolo sentenziando:
A: “NEI SETTORI GIOVANILI COMANDANO DUE CONCETTI: ANALITICO e SITUAZIONALE. Il fatto che il secondo vinca sul primo penalizza fortemente l’estro dei giovani calciatori, alla base della nostra piramide calcistica. E la crisi dell’Italia si potrebbe spiegare anche così”.
Una semplificazione quantomeno eccessiva basata sulla contrapposizione analitico vs situazionale. Il mio obbiettivo, sebbene chi conosce il blog conosca il mio pensiero, non è prendere posizione ma provare a riflettere su quanto esposto nell’articolo.
A: “Vanno di moda nelle accademie e nei settori giovanili e dividono in due le esercitazioni. Con le analitiche si affina la tecnica di base: dribbling ai paletti o ai cinesini, palleggi, tiri. Esercizi individuali, come una volta. Nils Liedholm prescriveva sessioni quotidiane di “muro” a tutti, fuoriclasse inclusi, perché il talento va mantenuto vivo lucidato e lustrato.
Evidentemente non si tiene conto che gli stili di vita, i contesti siano cambiati, che 40 anni fa (periodo cui si riferiscono le dichiarazioni di Liedholm) l’allenamento in situazione, faceva parte della quotidianità dei ragazzi e avveniva nei cortili, nelle strade, negli oratori e negli spazi verdi, molto più presenti ed accessibili di oggi, i giovani calciatori vivevano continuamente in un ambiente pieno di stimoli e che ne determinava un continuo apprendimento, il “muro”, la forca, e tutta una serie di orpelli erano un di più, sevivano a rafforzare in ciascun allenatore quel sentirsi “maestro”. Attenzione! Liedholm è stato certamente un maestro ma non per le prescrizioni cui si riferisce l’Autore. L’organizzazione di gioco come ben spiegato nello studio svolto da Riccardo Catto non penalizza ma favorisce l’estro.
L’Autore prosegue portando il seguente esempio: “Un esempio perfetto di lavoro analitico è il riscaldamento di Diego Maradona prima di Stoccarda-Napoli, ritorno della finale di Coppa Uefa 1989. Il video è facile da trovare su YouTube o sui social e spiega l’amore, quasi l’ossessione di Diego per la palla. Il rapporto con il pallone dovrebbe essere in cima ai pensieri di ogni giocatore, sempre.
Maradona è stato il giocatore più forte di tutti i tempi, almeno per chi, come me, non ha visto giocare Pelè. Vederlo palleggiare prima delle partite nei sotterranei dell’allora San Paolo, incuteva timore e destava ammirazione ma, va detto, la forza di Maradona non stava nel mostrare quella sensibilità nel tocco di palla bensì nell’efficacia all’interno di una partita, attraverso i dribbling, le conduzioni di palla, i passaggi, i tiri in porta ed i goal, tutto svolto all’interno della complessità del gioco, alla presenza cioè di compagni ed avversari, con un pubblico che poteva essere a suo favore o che inveiva contro di lui. Ogni volta sapeva scegliere cosa fare in funzione dell’obiettivo che si era posto e della situazione in cui si veniva a trovare, situazione che cambiava non solo da partita a partita ma istante dopo istante nella stessa partita. Questa era la sua bravura, l’espressione del suo talento perché è probabile che trovare altri giocatori che sapevano o sanno fare quello di cui l’autore parla nel pre partita di Stoccarda-Napoli non sia così difficile. Diego è cresciuto nel “potrero”, dove gli avversari erano tosti, dove il dribbling, la gambeta, es engaño, cioè il dribbling per riuscire deve ingannare l’avversario e i cinesini, i paletti, di cui parla l’Autore, non li inganni perché stanno sempre fermi, immobili. Quell’esercizio non è propedeutico al dribbling. Per imparare a dribblare devo provare a dribblare un avversario non qualcosa che non si muova. Tra l’altro in una intervista dopo il mondiale dell’86, in cui, contro l’Inghilterra, Maradona segnò il goal del secolo, lo stesso “Pibe de Oro”, affermerà che la possibilità di dribblare innumerevoli avversari gli sia stata data dalla presenza dei suoi compagni sottolineando come anche ciò che sembra individuale, di fatto, non lo è.
Lo stesso Velasco, certo uomo di pallavolo e non di calcio, direte voi, tra i più grandi esperti di metodologia dice: “per imparare a giocare a calcio bisogna giocare a calcio, non capisco come mai, in Italia, si facciano esercizi che niente hanno a che fare con il gioco del calcio!”.
Prosegue l’Autore:
A: Le esercitazioni situazionali “mirano a simulare situazioni specifiche di gioco, per allenare i giocatori a rispondere in modo appropriato e a migliorare la loro capacità decisionale. Queste esercitazioni possono essere sia offensive sia difensive, e vengono integrate in allenamenti più ampi per rafforzare la tattica di squadra (il testo tra virgolette lo abbiamo copiato da un manuale in Rete, ndr)”. Traduzione: ci si scambia il pallone in contesti predefiniti, con movimenti obbligati. Per nostre esperienze e contatti, possiamo dire che oggi, nei vivai italiani, il situazionale prevale sull’analitico, laddove sarebbe più giusto e utile il contrario. Fino a una certa età, 13-14 anni, il situazionale non dovrebbe esistere.
Tralasciando il fatto che la descrizione delle esercitazioni situazionali sia copiata da un generico manuale in Rete e quindi sembrerebbe non ci sia stata alcuna verifica/confronto con professionalità aventi competenza in proposito ciò che sgomenta è la traduzione dell’Autore che ripropongo qui di seguito:
A: Traduzione: ci si scambia il pallone in contesti predefiniti, con movimenti obbligati.
È una traduzione a mio modo di vedere errata perché le esercitazioni situazionali vanno esattamente nella direzione opposta: il contesto non è predefinito ma viene definito dallo sviluppo del gioco ed è pertanto imprevedibile!!! Non ci sono movimenti obbligati!!! Il calciatore deve continuamente prendere informazioni dell’intorno: dove sono i compagni, gli avversari, dove si trova la palla, dove sono le porte (compagni, avversari, palla e spazio con direzione di gioco sono i 4 elementi che definiscono l’ambiente di gioco e quindi l’ambiente di apprendimento).
Ciò che è altrettanto inverosimile è quando si afferma che nei vivai italiani prevalgano le esercitazioni situazionali.
Per quel che mi è dato di sapere e per ciò che colgo nei contesti formativi è esattamente il contrario e, opinione personale, queta è una delle ragioni per cui il percorso formativo dei nostri talenti sia rallentato.
Queste le successive affermazioni dell’ Autore:
A: “Ai bambini dovrebbe essere insegnata la tecnica pura – come stoppare e passare, come dribblare e tirare – e l’allenamento dovrebbe essere concluso con la partitella a tema libero, e con l’istruttore a vigilare e basta.”
Non c’è una tecnica pura, c’è la tecnica necessaria a risolvere una situazione di gioco e tutti gli studi nonché le sperimentazioni e di conseguenza le competenze (teoria+pratica) ci dicono che tali abilità si acquisiscano proprio all’interno della situazione di gioco. Paradossalmente l’allenamento dovrebbe essere una continua partita, non “partitella”, senza “istruttore” termine che tra l’altro fa il paio con “addestratore” in una contraddizione di pensiero evidente.
A: “Nessun rimprovero per un dribbling o un tiro sbagliato, anzi un invito a riprovarci. Per decenni questo è stato il modello vigente alla base della nostra piramide calcistica, un sistema che produceva campioni. Poi sono arrivati a frotte i presunti “guru”, Guardiola immaginari, e il situazionale ha schiacciato l’analitico”.
Qui torniamo ai luoghi comuni, alle colpe che si attribuiscono prima a Sacchi e oggi a Guardiola mentre la responsabilità e da attribuire a chi li imita eseguendo senza comprendere ciò che fa e perchè lo fa. Coloro che invece sanno allenare il particolare nella situazione sono gli unici che potranno aiutarci ad uscire da questo lungo periodo in cui il nostro calcio soffre tremendamente.
A: “Sempre più “addestratori” sgridano1 bimbi per un dribbling di troppo e ne limitano gli estri”.
Gli “addestratori” sono esattamente coloro che fanno eseguire pedissequamente un gesto tecnico ai propri giocatori fuori dal contesto di gioco nella convinzione che poi ci sia un transfer di apprendimento nella partita così come vorrebbe l’Autore.
A: “Altrove, in Spagna e in Francia, l’analitico fatto bene è la condizione senza la quale non si passa al situazionale. Per pubblicare un romanzo di successo, prima bisogna imparare a scrivere. Lasciate che i bambini giochino a pallone. Il calcio, con le sue tattiche, verrà dopo”.
La conclusione attiene ad un’idea di apprendimento secondo la quale si debba iniziare dal semplice per arrivare al difficile e ciò visto l’esempio con la scittura significherebbe che l’insegnamento (fermo restando che preferisca “mettere il soggetto nelle condizioni di apprendere”) avere alunni di prima elementare che apprendano a scrivere cominciando dalle asticelle verticali, poi diagonali, quindi i cerchiolini, fino a formare la lettera, poi la sillaba, la parola e via dicendo. Potrei sbagliarmi ma anche per quanto riguarda la scrittura siano stati fatti passi in avanti, certamente sono stati fatti nell’apprendimento motorio attraverso le teorie ecologiche, quelle dei sistemi dinamici, quelle psicosociali, le neuroscienze ed i neuroni specchio. Oggi si parte, o meglio si dovrebbe partire dalla complessità per poi, eventualmente, semplificare ed arrivare a destrutturare il contesto di apprendimento fino all’analitico solo in casi estremi senza dimenticare che dalla situazione all’analitico c’è tutto un mondo da esplorare.
Più sarete a farlo e più riusciremo a risolvere una parte dei problemi del calcio italiano.
Dimenticavo…la tattica, intesa come scelta, non viene dopo ma sta insieme alla tecnica, alla parte fisico-atletica, a quella emotiva e a quella mentale.
“Se non alleno il giocatore alla scelta non lo sto allenando”(Cit.RDZerbi)
15 risposte
Ineccepibile il tuo commento: il calcio resta un gioco maledettamente semplice ma dalla complessità enorme.
Se esistessero ricette che stanno raccolte in una pagina, avremmo risolto tutti i problemi del calcio italiano.
Invece non è così, ma soprattutto non è una questione di promettenti Guardiola nelle panchine delle giovanili, altrimenti non avremmo le nazionali dei più giovani che fanno bella figura… Ogni sport di squadra ha due componenti fondamentali: le persone e le scelte che compiono. Ma non vale solo per lo sport, è così in ogni attività.
“Egli deve presentare frasi significative per il bambino, legate al suo contesto e ai suoi interessi, per favorire un apprendimento più efficace e coinvolgente” Pensiero e linguaggio Lev Vygotskij
PER VERNAZZA, e vado a giocare nella sua metacampo ( almeno presumo che sia così), perché sulle “amenità” dell’articolo già Filippo ne ha stigmatizzato senso, significato e scopo ( a proposito, per un giornalista non sono importanti le fonti?) Prendo l’ultima frase ” Per pubblicare un romanzo di successo, prima bisogna imparare a scrivere” : non c’è bisogno di tirare in porta, si è fatto gol da solo.
Se avete un poco di pazienza, seguitemi.
Nella mia cinquantennale esperienza scolastica ho avuto la fortuna di incrociare diversi momenti pedagogico-culturali influenzati da ciò che emergeva dal punto di vista scientifico ( neuropsicologia dell’apprendimento) e soprattutto dalle conseguenti e coerenti sperimentazioni didattiche che venivano effettuate non solo in Italia.
Non voglio parlare dell’apprendimento motorio e tecnico, su cui molto è stato detto, ma di come si impara a scrivere e cosa è fondamentale per imparare a scrivere.
Per poter scrivere occorre aver conosciuto la lingua.
La lingua la impariamo perché le persone intorno a noi parlano e si rivolgono a noi con una frase, una favola, un racconto, cioè ci immergono nel parlato attraverso una complessità di mezzi. Scriviamo perché conosciamo le parole, le associamo alle immagini, cioè conosciamo il tutto da cui poi impariamo a selezionare le parti.
Non credo che chi parlava con noi utilizzava prima le vocali, poi le consonanti, poi le sillabe…per niente! “Inizialmente, il bambino memorizza una frase nel suo insieme, ne comprende il significato e poi, gradualmente, la scompone in sillabe e lettere. Questo approccio rispecchia la percezione infantile del mondo, considerata inizialmente come un insieme unitario, per poi essere analizzata nei dettagli.
La capacità di leggere e scrivere è il risultato di un intricato processo cognitivo che inizia con il riconoscimento visivo dei simboli grafici e si estende alla comprensione e alla produzione del linguaggio scritto. Quando leggiamo, il nostro cervello non solo decodifica singoli caratteri o parole, ma attiva anche una rete complessa di connessioni neuronali che ci permette di interpretare il testo in termini di significato e contesto.
Il concetto di globalità è fondamentale nella letto-scrittura poiché il cervello umano tende a cercare pattern e strutture complessive piuttosto che focalizzarsi su elementi isolati. Questo approccio globale si riflette nella maniera in cui processiamo le parole e le frasi, integrando simultaneamente informazioni visive, linguistiche e contestuali.
Il pensiero, dunque, gioca un ruolo cruciale, fungendo da collegamento tra la percezione visiva delle parole e la loro comprensione a livello più profondo.
Le attività che incoraggiano la riflessione critica e la discussione possono migliorare significativamente la comprensione mentre la scrittura creativa aiuta a rafforzare le capacità espressive e costruttive del bambino. Prima la Comprensione e poi la Scomposizione. E qui è importante sottolineare il ruolo che deve assumere l’insegnante. Egli deve presentare frasi significative per il bambino, legate al suo contesto e ai suoi interessi, per favorire un apprendimento più efficace e coinvolgente” Pensiero e linguaggio Lev Vygotskij
Errata corrige: Doverosa attenta disamina quella di Filippo Galli di un articolo pieno di luoghi comuni. Deprimente leggere ancora queste frasi, figlie di un’ottica duale. Negli altri paesi a cui si fa riferimento nessun giornalista produrrebbe pezzi del genere perché la cultura sportiva permea anche ogni aspetto della vita. Purtroppo, qui in Italia, l’ignoranza nel senso di non competenza ha aggredito l’intero sistema e purtroppo, con una federazione calcio allo sbando incapace di indicare linee guida certe, di produrre risultati accettabili adeguati al numero enorme di tesserati sia nel ruolo di giocatori che di allenatori, rifugiarsi nel nostalgico è prassi. Per fortuna il”quando c’era lui” in questo caso si riferisce a Maradona.
Salve Galli, ci siamo già confrontati su alcune di tali questioni. Sto nel mondo del calcio dei ragazzi da quando ho smesso di giocare, esattamente dal 2001, e già all’epoca era aperta l’assurda diatriba analitico-situazionale. Dopo venticinque anni non abbiamo fatto un passo avanti.
L’articolo in questione contiene idee vecchie, molte imprecisioni e alcune contraddizioni ma su una cosa sono d’accordo, quando dice “il rapporto col pallone dovrebbe essere in cima ai pensieri di ogni calciatore”. Io direi anche di ogni allenatore di giovani calciatori. Uso il termine allenatore, non istruttore né tantomeno addestratore, perché è la nostra qualifica (Allenatore Uefa A, B ecc., Associazione Allenatori…). Allenatore, con il suo carico di competenze e con la voglia di mettere a disposizione dei ragazzi le proprie esperienze. Perché non debba solo vigilare nella partitella finale, come vuole il giornalista, oppure che non faccia nulla, come mi sembra di capire nell’esempio che ha fatto lei (“…paradossalmente l’allenamento dovrebbe essere una continua partita, non “partitella”, senza “istruttore”…”). Davvero i nostri ragazzi non meritano che gli si dica qualcosa (purché si veda e si abbia qualcosa da dire), anche e soprattutto quando commettono un errore? Cioè, per fare un esempio pratico e semplice, durante una partita (o partitella…) se un ragazzo, conquistato il fondo del campo, tira in porta invece di passare il pallone nel cuore dell’area di rigore dove stanno arrivando alcuni compagni, non si deve dire nulla? Non credo che un allenatore abbia il solo compito di preparare la seduta di allenamento e scandire i tempi delle esercitazioni; un computer o l’AI potrebbe fare questo lavoro molto meglio…Presso i popoli antichi (primitivi, come razzisticamente li definiamo), gli anziani che avevano visto molte lune godevano di grande prestigio e avevano un ruolo fondamentale in quelle società, perché potevano raccontare ai più giovani quello che avevano visto e che avevano fatto.
Affermare che oggi si fa più analitico che situazionale o viceversa, ci mette in un tunnel senza via d’uscita, che la crisi del nostro calcio sia dovuto al fatto che non si fa più il muro o che si fa troppa tecnica significa calare un velo sui problemi reali. Per inciso, ho visto attività in Academy dove ai bambini di 10-12 anni veniva fatta provare per decine di minuti la costruzione dal basso…Ma al di là di questo, faremo un servizio utile al gioco che tutti amiamo se cominceremo a mettere sul tavolo i motivi veri, che sono di varia natura. Per esempio, il numero inferiore di ragazzi che giocano a calcio rispetto a trenta o quaranta anni fa dovuto al calo della natalità in Italia, con conseguente riduzione di “talenti” (se un fenomeno aumenta quantitativamente, abbiamo un cambiamento radicale della situazione – Hegel). Oppure la carenza e addirittura la mancanza di strutture, con metà del paese (il sud) tagliato fuori dalla possibilità di far emergere giovani calciatori di valore. Ci sono società dell’ambito professionistico che cambiano quotidianamente il campo di allenamento o sono costrette ad allenarsi in metà campo. E non entro nella realtà delle piccole società dilettantistiche, dove tutto è lasciato alla passione e al sacrificio dei singoli. La struttura dei campionati giovanili, inoltre, che non esalta le difficoltà e quindi è una competizione al ribasso, le seconde squadre… Potrei continuare, ma penso che sia già sufficiente così e sarebbe opportuno aprire una discussione vera su questi temi.
Mi sembra, in definitiva, che tutto il discorso sia viziato dal ricorso all’uso di categorie che si adottano, alle quali si vuole forzatamente far aderire la realtà, al di là della realtà stessa. La Tecnica, la Strada, il Gioco, le Neuroscienze…La strada. Ho giocato in strada (soprattutto asfalto, pochi spazi verdi in periferia) tutta la mia infanzia e adolescenza e non sempre c’erano otto o dieci ragazzi per fare una partita. Mi capitava spesso di essere da solo o insieme a un paio di ragazzi e allora ci si inventava qualche gioco di abilità, come la sfida di palleggi o come tirare il pallone in alto per colpire la lampada dei lampioni (!) o cercare di fare canestro con i piedi nel secchio dell’immondizia che (Lei lo ricorderà) erano cilindrici e di ferro o calcio tennis con una ringhiera più o meno alta a fare da rete, e ancora…possiamo chiamare tecnica tutto ciò? Lei dice: “…l’allenamento in situazione, faceva parte della quotidianità dei ragazzi e avveniva nei cortili, nelle strade, negli oratori e negli spazi verdi, i giovani calciatori vivevano continuamente in un ambiente pieno di stimoli e che ne determinava un continuo apprendimento…”. Ho giocato con decine e decine di ragazzi, ahimè tra i il 1970 e il 1980, soltanto in tre siamo stati calciatori professionisti e siamo ancora in questo magico mondo. Inoltre, nessuno lo sottolinea mai, non si giocava solo con i coetanei, come purtroppo accade oggi, ma con ragazzi spesso più grandi e ci si doveva adattare subito (fisicamente ed emotivamente) se non si voleva andare incontro a conseguenze spiacevoli (d’estate l’asfalto brucia molto così come una sgridata da un ragazzo più grande…). Il Gioco. Il Gioco insegna a giocare. Vero, momento imprescindibile, determinante, di conoscenza e di esperienza, nel quale il contesto e le situazioni continuamente variabili danno un feedback unico. Vero a metà perché è anche il momento di espressione delle capacità di un ragazzo, che ti dice cosa riesce a fare, cosa no, cosa non sa fare e da qui andare alla ricerca di soluzione dei problemi emersi, che possono essere tecnico-tattici o anche emotivi. Il Gioco non è soltanto la Soluzione, è il momento in cui emergono i problemi, è il Problema. Le Neuroscienze. Attenzione, perché è un campo insidioso. Atti motori finalizzati, memoria, abitudini, aree cerebrali che si attivano, apprendimento…è un mondo ancora tutto da scoprire, possiamo dire che siamo un po’ come Colombo nell’ottobre 1492, abbiamo avvistato una terra ma non sappiamo cosa sia…
Ci sarebbe molto ancora da discutere ma concludo scusandomi dell’eccessiva lunghezza. E’ un bel dialogo (dia-distante o attraverso e logos-discorso). La divergenza di opinioni (la Dea di Parmenide ci ammonisce e ci impedisce di seguire le opinioni…) ci avvicina molto più di quanto sembri (dagli opposti la più bella armonia…Polemos è padre di tutte le cose – Eraclito).
Buongiorno Alessandro, provo a risponderle, in modo non lineare e forse non completo, rispetto alle questioni che ha sollevato: Non intendevo dire, ma è chiaro che sia mia responsabilità, che l’allenatore debba lasciare giocare i ragazzi senza dire e fare nulla. (che non faccia nulla, come mi sembra di capire nell’esempio che ha fatto lei), al contrario sarà lui a capire se, quando e come intervenire in base al momento, alla situazione e soprattutto al ragazzo/a cui si trova di fronte o meglio con cui si trova in relazione. Rispetto all’affermazione “il rapporto col pallone dovrebbe essere in cima ai pensieri di ogni calciatore”, vorrei sottolineare come si continui a dimenticare che il gioco del calcio sia un gioco di squadra. Ciò che si fa con la palla non può non tener conto della presenza di avversari e compagni, la partita si svolge con un solo pallone (5v5 – 7v7 – 9v9 – 11v11), non dobbiamo mai dimenticarlo affinchè nei ragazzi, tra l’altro, si attivi il senso di collaborazione. Ribadisco l’apprendimento avviene lì.
La mancanza di strutture… certamente questo è un problema atavico nel calcio giovanile e non solo ma le assicuro che là dove c’è voglia di cambiamento, coraggio e ascolto, le strutture passano in secondo piano (esperienzea con le scuole calcio nel Sud). Riguardo all’esempio della strada mi sembra che si sia sulla stessa lunghezza d’onda almeno fino a quando parla dei giochi con uno o due dei suoi compagni: quella non è tecnica perchè non risolve una situazione di gioco, lo chiamerei esercizio di sensibilità o in altro modo, comunque utile perchè ci faceva stare bene e quando stai bene esprimi il meglio . Rispetto al gioco invece, evidentemente, non sono stato sufficientemente chiaro perchè è nel gioco che l’allenatore può e/o deve intervenire secondo le modalità già espresse. Chiudo con le Neuroscienze. Con i miei colleghi siamo stati i primi, credo, nel mondo del calcio giovanile, a confrontarci con il Prof.Sinigaglia Corrado tra i principali collaboratori di Rizzolatti e a discutere su quanto i loro studi fossero ancora svolti in “condizioni di laboratorio”. Pertanto le assicuro che pongo grande attenzione quando ne parlo e lungi da me considerarmi un esperto.
Grazie per le sue considerazioni e a presto.
Filippo
Buonasera Galli. Inizio con le Neuroscienze. La mia non era una critica a Lei ma a un modo molto disinvolto, che è comune nel nostro mondo, di “usare” importantissimi studi scientifici, fatti in altri ambiti e con altre finalità, su cui basare metodi di allenamento. Anche io mi sono appassionato circa quindici anni fa a questa materia, documentandomi attraverso le pubblicazioni (piuttosto complicate devo dire) di Rizzolatti e di Iacoboni e altro. Mi sembra di poter affermare che, in relazione al gioco, di “certezze” ne abbiamo poche: 1) il sistema motorio è un sistema autonomo, che non dipende dalle aree associative; 2) non eseguiamo movimenti ma azioni finalizzate (scopo), sulla base del nostro vocabolario di atti motori; 3) il contesto è fondamentale per le nostre azioni; 4) riconosciamo le azioni degli altri (neuroni specchio) attivando le stesse aree cerebrali come se quella azione che vediamo la stessimo facendo noi in prima persona. Non è poco, ma mancando studi specifici e definitivi sul rapporto neuroscienze/calcio, il mio pensiero è di andarci comunque cauti.
Voglio essere chiaro. Sono fermamente convinto anch’io che i giochi (partite, partite a tema ecc.) siano il nucleo fondamentale per imparare e che la stragrande maggioranza del tempo debba essere utilizzato in questa direzione. Per Cruijff, 5>5 era la partita perfetta. Ma non credo sia opportuno fare del gioco un Mito, la soluzione a tutto (una volta si diceva che il miglior allenamento è la partita), perché il gioco è anche un problema, o meglio è lo scenario nel quale si manifestano i vari fenomeni (un gol da 30m con il piede dominante e un passaggio sbagliato di 5m col piede non dominante, da parte dello stesso giocatore). E qui ci dobbiamo porre delle domande. Resto convinto, per esperienza personale, che destrutturare o semplificare attraverso esercizi individuali e mirati, per il tempo necessario e con continuità, possa essere di aiuto a superare delle difficoltà tecniche e non solo. Tra le altre cose, in questo modo si dimostra anche una considerazione individuale sostanziale che può incrementare la fiducia e tutti sappiamo quanto i ragazzi oggi abbiano bisogno di attenzione e cura.
Lei dice: “vorrei sottolineare come si continui a dimenticare che il gioco del calcio sia un gioco di squadra”. Io personalmente non lo dimentico e non lo dimenticano neanche tutti quegli allenatori di sport di squadra di contatto che dedicano molto tempo alla tecnica, più di quanto facciamo noi nel calcio.
Infine, mi consenta di non essere d’accordo con quanto dice riguardo le strutture: ” là dove c’è voglia di cambiamento, coraggio e ascolto, le strutture passano in secondo piano”. Strutture, persone qualificate (allenatori, preparatori, medici, fisioterapisti, dirigenti giù fino al magazziniere), stipendi o rimborsi adeguati, queste cose fanno la differenza, al di là di 10 minuti in più o in meno di tecnica o di gioco, perché oltre a essere necessarie, cancellano un’idea di incuria e disinteresse nel quale vivono i nostri ragazzi al sud.
Buonasera Alessandro, stavolta parto dal fondo: concordo sul fatto che non ci sia dignità lavorativa per le professionalità occupate nei settori giovanili.C’è tanto da fare, anche tra i professionisti, anche nei club di A. Rispetto alle strutture, mi creda, sono importanti ma non così essenziali.
Semplifico ma non destrutturo però non voglio insistere su questo, mi sembra che si viaggi su binari paralleli 🙂
Rispetto alle neuroscienze chapeau per le sue conoscenze e non sono sarcastico. A me è servito un esempio portatomi dal coach della pallavolo Mazzanti per capire tante cose rispetto ai neuroni specchio e all’inadeguatezza dell’utilizzo di strumenti vari per migliorare la tecnica.
Grazie sempre e buonanotte.
Filippo
Grazie Filippo di aver risposto all’articolo, lo avevo letto anch’io (con un po’ di rassegnazione, visto il giornale). Speravo che gli allenatori della società di cui sono responsabile tecnico non l’avessero letto, perché appunto, dice il contrario di quello che cerco di condividere con loro.
Adesso invece, la tua risposta rafforza il nostro percorso.
A proposito del parallelo con l’insegnare a scrivere.
Esistono diversi metodi per insegnare a scrivere e … sono tutti validi (globale, fono-sillabico, etc).
Però i bambini sono diversi tra loro per indole/capacità e uno di questi metodi non sarà quello ottimale per tutti i bimbi.
Questo significa che l’insegnante dovrebbe teoricamente scegliere il metodo più adatto ad ogni bimbo in modo che possa imparare con meno difficoltà.
In pratica a scuola si opta per il metodo ritenuto migliore per la maggioranza dei bimbi e se l’insegnante (o insegnante si supporto) vuole, adotta un metodo diverso con qui bimbi che hanno difficoltà con il metodo standard.
Con i fondamentali del calcio credo sarebbe opportuno un approccio analogo.
Ma questo necessiterebbe di una formazione specifica degli allenatori che dovrebbero non solo conoscere i fondamentali, ma anche diversi metodi di insegnamento in funzione di propensioni o difficoltà che ha il singolo bimbo e il voler dedicare un po’ più tempo all’allenamento individuale.
In breve dovrebbero essere in grado di valutare le difficoltà che possono avere i bambini in modo da scegliere il metodo di insegnamento più adatto a loro.
Faccio notare che le stesse nozioni di base possono essere apprese giocando da soli con il muro (es. parlando dello stop) avendo abbastanza tempo e volontà.
Un buon allenatore dovrebbe essere in grado di ridurre questi tempi di apprendimento e trasmettere non solo il mero meccanismo (come posizionare il piede) per ma anche una serie di concetti che normalmente richiederebbero tempo ed esperienza per essere appresi (es. far capire perché facendo lo stesso movimento il pallone a volte si ferma e altre volte rimbalza via).
Per quanto riguarda il discorso inerente il partire dal semplice per arrivare al difficile.
Conoscere bene le basi aiuta molto quando ci si trova ad affrontare situazioni complesse che possono essere risolte applicando un’operazione complessa o una serie di operazioni basilari.
Quindi non mi sento di condividere in toto il ragionamento.
Ad esempio un vecchio maesto di Judo utilizzava in ogni contesto solo l’omote gyaku (una leva articolare applicata al polso).
In pratica si muoveva e posizionava in modo tale da rendere efficace quella leva in ogni situazione anche se, per come viene insegnata, quella tecnica dovrebbe essere adatta solo a contesti molto specifici. In breve quello che conta è risolvere un problema in modo corretto, non come lo si fa.
Concordo con le tue osservazioni, se ti capiterà di leggere alcuni articoli di metodologia in questo blog ti accorgerai come si sottolinei l’importanza dei canali di apprendimento che possono essere differenti da un bambino/a al’altro/a. Detto questo resto dell’idea che sia necessario partire dalla complessità ed eventualmente semplificare (non destrutturare) agendo su spazi e numero di giocatori e, di conseguenza sui tempi a disposizione. A volte, quando si notano le difficoltà di qualche giocatore occorre, ad esempio, farlo “lavorare” in analitico non perchè così apprenda ma perchè si senta più sicuro (confident).
Non mi ritrovo sull’esempio che porti rispetto l’utilizzo del muro ma, come vedi, in questo contesto (blog) c’è libertà di pensiero :-).
Grazie per il tuo contributo.
Filippo
Il gioco del calcio rimane un gioco..tutto comincia e finisce ne contesto dei cosiddetti 90 minuti.La tecnica ,la fantasia l agonismo,la testa e la unione di 22 ragazzi determinati a giocare e vincere sono elementi comuni x ciascuno giocatore.ecco xk ogni partita ha una storia a se e l estro va sempre esaltato. Mi
Buongiorno a tutti. Non voglio entrare nel merito di chi abbia ragione (forse non ne avrei le competenze), però riguardo a ci che dice il signor Toti, trovo anche io molti punti in comune, in particolare l’asfalto, quello di via Wildt a Lambrate, i ragazzi più grandi, i giochi particolari legati all’abilita’, cose che mi hanno permesso di avere un controllo di palla e di creare traiettorie interessanti. Ecco anche io ho vissuto tutte queste situazioni e ho cercato per esempio di insegnare ai miei figli l’arte del palleggio. A me invece colpisce molto il fatto che calciatori professionisti di serie A non sappiano fare un passaggio col piede debole, al punto che si cerca un centrale destro ed uno mancino. Ho visto giocare tante volte Franco Baresi a San Siro e, pur privilegiando il destro, gli ho visto calciare punizioni dalla proprio metà campo, anche col sinistro, con precisione millimetrica…Grazie e buona serata a tutti.
Dimenticavo : e col signor Toti, coincide anche il periodo, non il luogo, immagino. Ma un altro gioco che facevamo era porticine sul marciapiede, con le finestrelle delle cantine che davano appunto sul marciapiede: pertanto il campo era a “c”. Ed un altro gioco era sempre sul marciapiede, partita con gol di testa al volo.
Vero sig. Gian Paolo, l’asfalto di cui parlo si trovava a Roma, in una piccola borgata su un pianoro chiamato Monte del Pecoraro, tra le borgate di Tiburtino III e Pietralata, luoghi nei quali si muovono i personaggi di “Ragazzi di vita” di Pasolini…
Carissimo Filippo; forse sarò fuori tempo massimo; ma desidero comunque esprimere il mio punto di vista sull’articolo di Sebastiano Vernazza. Questo sebbene la tua risposta sia già stata perfetta; quasi clinica ed abbia smontato-pezzo per pezzo-le teorie strampalate vergate dal suddetto giornalista. Ma il mio intento è più quello di contestualizzare il motivo per cui in Italia si scrivono pezzi di questo genere, più che contestare il contenuto, perché quello, appunto, è già stato ampiamente fatto.
Intanto già partire dalla definizione di “Guardiola immaginari” suona molto sarcastico ed è una delle ragioni che spingono certi giornalisti sportivi italiani, a combattere quella che è-a tutti gli effetti-una battaglia ideologica. La demonizzazione di una controparte. Una figura di massima eminenza, che tiene alto il vessillo dello studio; del lavoro; dell’impegno; della dedizione alla causa. A certi soggetti, conviene screditare chi dimostra che; attraverso lo studio; la passione ed una devozione quasi maniacale, oltreché ad un genio indiscusso; si possono ottenere grandi risultati ed invece esaltare chi si arrabatta; magnificare l’arte di arrangiarsi; di ottenere il minimo risultato-perché il massimo di certo non lo si consegue abborracciando una parvenza di lavoro, raffazzonato e minimale-col minimo e se possibile nullo, sforzo. Molto meglio tessere le lodi di qualcuno i cui risultati, sono conseguiti grazie a doti; competenze ed abilità che qualsiasi persona può avere e mettere a frutto; anziché premiare chi non si accontenta mai. È bello chi ha lo stesso staff da 20 anni. Non Guardiola che, dopo un anno deludente, cambia 2 dei suoi collaboratori più stretti e stravolge tutto. È inutile girarci intorno e so che potrà sembrare quasi paradossale scriverlo in uno spazio frequentato da molti milanisti; ma davvero provo tutta la comprensione del mondo per te, che hai i colori rossoneri tatuati sul cuore e che hai sempre cercato di alzare il livello culturale e qualitativo del dibattito sul calcio; vedere Allegri, come guida tecnica della squadra che ami così profondamente. Perché-è inutile far finta che non sia così-la contrapposizione ideologica(nonostante da una parte un’ideologia nemmeno c’è)che si è innescata in questi anni è dovuta a tutta la nefasta e nefanda serie di luoghi comuni, privi di qualsiasi fondatezza peraltro; profusa a piene mani dal neo-allenatore del Milan. E cavalcata dalla pletora di paggetti e cavalieri serventi che ne alimentano insensatamente ed ingiustificatamente l’allure. Che il Sig. Vernazza senta l’urgenza di esprimere le sue opinioni(se possiamo chiamarle così), sui problemi che attanagliano il calcio italiano e ciò da ben prima che nascesse il fenomeno Guardiola; è legittimo. Che lo faccia senza disporre di alcuna conoscenza specifica degli argomenti ultra-complessi; come estremamente complesso è il calcio(altroché semplice. Vedi che si va a finire sempre lì?); spargendo giudizi dozzinali e privi di fondamento su alcuni, imprecisati esponenti di una categoria professionale specifica, è francamente insopportabile. Sarebbe un po’ come se io; forte della mia umile ma sempre valida maturità classica; mi permettessi di pubblicare un articolo; sparando nel mucchio perché hai visto mai che si possano fare esempi precisi e dare nomi e cognomi ai bersagli di certe invettive; nel quale elencassi i malesseri ed il degrado del giornalismo italiano e non lo facessi neanche facendo leva sulle conoscenze acquisite negli anni, ma traendo parecchi spunti da dei sentito dire; da luoghi comuni vieti; triti e ritriti e (perché no?)spulciando su qualche manuale trovato su internet, che non fa mai male! Qui siamo al parossismo del qualunquismo calcistico. Parlare di situazionale ed analitico, senza, evidentemente, avere alcuna contezza della materia, può servire solo a gettare fumo negli occhi di un tifoso da bar; di quelli neanche troppo ferrati sull’argomento. Come dicevo in un altro post; io non dico mai la parola “mai”, in riferimento al calcio e nella fattispecie, riguardo all’utilizzo di mezzi di allenamento. Questo sebbene sia fermamente convinto della scarsa rilevanza propedeutica di alcuni di essi, come appunto molte proposte di natura analitica. O i famosi 11 vs 0. O certe proposte “apparecchiate”, come amo definirle io; nelle quali l’elemento spontaneo ed imprevedibile, che è alla base del gioco del calcio, viene quasi del tutto azzerato, almeno in partenza; per fare posto ad una sorta di coreografia calcistica; che ben difficilmente troverà applicazione pratica durante la partita. Come si possa pensare di accelerare e favorire il processo di apprendimento di un bambino, utilizzando esclusivamente mezzi analitici e privando il gioco della sua naturale spontaneità; è una bestialità talmente enorme da sconfinare nel ridicolo. Un po’ come pretendere che un/una bimbo/a possa imparare ad andare in bicicletta scorporando i gesti e facendoglieli eseguire meccanicamente su una cyclette. La pedalata; l’alzarsi dal sellino; la frenata; la sterzata. Ben sapendo che sarà soltanto mettendo il veicolo in movimento e sperimentando tutte le difficoltà che derivano da questa azione, che il bimbo in questione potrà imparare a trovare l’equilibrio. Non solo su rettilineo sul piano, ma in curva; in discesa; salita; con buche; strade sterrate etc e che questa abilità si affinerà mano a mano che il nostro sperimenterà tutte le possibili circostanze che gli si presenteranno davanti. In un processo di apprendimento continuo ed infinito. Ed essendo consapevoli che questo processo passerà attraverso qualche caduta; alcune incertezze e pure molte paure. Che potrebbero non sparire mai del tutto ed anzi, si potrebbero manifestare quando il bimbo si troverà ad affrontare una condizione o una sommatoria di condizioni(complessità, appunto)inedite per lui in quella forma. E così ci si ritrova a dividere in buoni e cattivi; in giusti e sbagliati; senza approfondire, né cercare di comprendere le tematiche su cui ci si permette di sputare sentenze da 4 soldi. Diamo un pallone a dei bambini e vedremo cosa ci faranno. Sicuramente potrebbero esserci momenti in cui si agglomereranno tutti intorno all’oggetto del desiderio; ma più spesso, probabilmente, si autoorganizzeranno e cominceranno a trovare distanze e cercare interazioni; sinergie ed interconnessioni spontanee. Come si fa a dire che non debbano essere proposti contesti di gioco situazionali; anche se io preferisco chiamarli “simulazioni”? E la scarsa-per non dire nulla-competenza specifica è provata da alcune locuzioni fuori dal mondo, tipo:”insegnare la tecnica di base”. Intanto bisognerebbe comprendere che tecnica significa letteralmente:”far bene qualcosa”. E quindi non esiste una tecnica perfetta ed universale. Ci potranno essere gesti tecnici compiuti in modo più o meno armonioso e bello a vedersi, ma un giocatore che, paradossalmente, dovesse eseguire gli stessi gesti in modo del tutto personale e magari sgraziato o anche scoordinato all’apparenza; con una percentuale di successo elevata, sarebbe da definire come un giocatore estremamente tecnico, ancorché forse non elegante nelle movenze. Qualche anno fa lessi la storia di Marcello Fiasconaro, che era un atleta italiano che, per qualche ragione che non ricordo, era cresciuto in Sudafrica mi pare e cominciò ad ottenere tempi e risultati di rilievo, tanto da suscitare l’attenzione della Federazione italiana di atletica leggera, che lo portò di nuovo qui. Fiasconaro, apparentemente; aveva una tecnica di corsa molto sgraziata; non perfetta secondo gli standard di valutazione dei tecnici federali, i quali pensarono bene di modificargliela, col risultato di fargli perdere quella dirompenza selvaggia che era alla base dei suoi risultati. Molte volte penso che se Zidane fosse nato in Italia, non sarebbe diventato il campione che è stato; perché sicuramente si sarebbe imbattuto in qualche tecnico che avrebbe storto il naso di fronte al suo incedere così particolare; col busto quasi piegato in avanti; quasi a dare l’impressione costante di stare per cadere a terra. E che dire di Kulusevski, che sembra quasi pattinare quando corre e conduce palla? Io sono fermamente convinto che-seppure importante, come ogni aspetto del calcio-la tattica sia forse la meno rilevante. Per tattica intendo il significato etimologico della parola stessa ossia: tattica dal gr. taktikḗ (tékhnē) ; propr. “l’arte di disporre (le truppe)” e quindi la disposizione iniziale o di principio dei giocatori in campo. I moduli o gli assetti base, per intenderci. Ma credo fermamente che un giocatore, chiunque egli sia; qualsiasi caratteristiche possieda, abbia bisogno di calarsi completamente nel gioco e nella sua complessità. Nei suoi flussi continui, per poter comprenderne l’essenza, sempre parzialmente; perché in questo gioco non si finisce mai di apprendere. E per fare ciò occorre giocare con compagni ed avversari, proprio perché-come dicevi tu in riferimento al goal di Maradona-non esiste l’1 v 1. Mai. Ci sono sempre compagni ed avversari a condizionare; direttamente o indirettamente, le nostre giocate; i nostri movimenti con e senza palla. E per fare ciò occorre far giocare i bambini il più possibile. Ed aiutarli mediante l’impiego di concetti; princìpi e filosofie di gioco. E non facendogli fare il muro o la forca fino a quando non avranno 13/14 anni(perché quel limite anagrafico poi? Boh)
Purtroppo certi giornalisti si nutrono di parole vuote e prive di senso alcuno, solo per darsi un tono o per sventolare un vessillo anziché un altro. E nel frattempo continuano a girare attorno ai problemi, mentre la nave del calcio italiano sta affondando inesorabilmente e non perché un allenatore, su un campetto polveroso, ha fatto provare una proposta esperienziale situazionale, ma per problemi e bubboni ben più radicati e che nessuno sembra voler almeno provare a risolvere.
Nello scusarmi per il messaggio molto lungo, ti rinnovo i complimenti e ti mando un abbraccio. Ci vorrebbero 10 Filippo Galli ed invece, chi di dovere, se ne guarda bene dal cooptarli.