PSG-INTER: IL PREPARTITA DELLA FINALE DI CHAMPIONS

Nel rapporto tra cultura e società il valore simbolico degli avvenimenti può mutare radicalmente la percezione che si ha su ciascun individuo o sul suo gruppo di riferimento, anche se quello stesso avvenimento esula dal merito personale o dalla propria volontà. È così nello sport, dove la tirannia dei risultati può far percepire il lavoro di anni come futile, oppure glorificarlo a seconda dell’esito di eventi impredicibili; a maggior ragione lo è nel calcio dove 90 minuti di una finale possono determinare la storia di un club, la percezione sulla riuscita o meno di una stagione, persino il potere contrattuale di giocatori, allenatori e dirigenti qualora dovessero risultare vincenti o perdenti, in particolar modo se quei novanta minuti mettono in palio la Champions League, il pezzo più prezioso nell’argenteria delle bacheche di ogni società.

Lo sa bene l’Inter, reduce da una stagione scandita dal ritmo altalenante tra campionato e coppa campioni, sotto accusa per aver ”abbandonato” il sentiero facile delle competizioni nazionali per quello più ripido rappresentato dalla Champions; un sogno ritagliato nelle difficoltà a gestire il triplo impegno settimanale a ritmi prosciuganti, con il maggior investimento di risorse spostato sul massimo obiettivo raggiungibile, con in palio la vendetta per la finale persa ad Instanbul nel 2023. Ad avvertire il peso imponente di una finale non può che essere il Paris Saint-Germain, squadra con una storia decennale di reclutamenti faraonici, finalizzati all’unico scopo di riportare la Coppa dalle grandi orecchie e trasformare la Ville Lumière nel più attrattivo Luna-Park calcistico del mondo, mancando però quasi sempre l’appuntamento decisivo in campo internazionale, dopo aver fatto incetta di titoli in Francia. È questa la sorte fatale delle due tifoserie oggi opposte, 90 minuti per la gloria o la disgrazia, per dar corda ad una delle due narrazioni, quella disfattista o quella entusiastica, per avere quella medaglia al collo e quella voce in più nel palmares che, ironicamente parlando, offre diritto di parola perpetuo nelle corti calcistiche di tutto il mondo. All’Allianz Arena di Monaco si sfideranno questi due universi contrapposti, occupiamoci di analizzare il percorso che le due squadre hanno affrontato per giungere alla finalissima.

L’Inter di Simone Inzaghi ha sicuramente il merito di aver saputo convogliare tutte le forze del gruppo squadra sulla preda grossa, con un dosaggio accurato delle risorse fisiche complice anche l’età anagrafica avanzata di molti dei suoi interpreti(29 anni la media, la più alta delle 36 partecipanti), che ha determinato sicuramente il calo prestativo in Serie A.

Dopo un girone passato in maniera convincente classificandosi come quarta forza del torneo, con le prime otto partite all’insegna di un turnover ben calibrato e una fase difensiva protagonista visto il solo gol subito contro il Leverkusen nel finale. Dopo aver liquidato con facilità un Feyenoord parecchio limitato dagli infortuni arriva per i nerazzurri il primo avversario di grande portata, il Bayern Monaco, anch’esso però con qualche defezione all’attivo (Musiala, Davies, Upamecano, Neuer…) ma con la motivazione di provare a raggiungere la finale in casa propria. Il doppio turno terminerà con un complessivo 4-3, con i nerazzurri che riescono ad espugnare prima l’Allianz Arena e poi ribaltando i bavaresi a San Siro, consolidando così il passaggio del turno.

Le turbolenze non finivano qui però, ad attendere l’Inter c’era infatti il Barcellona di Hansi Flick, dominatore della Liga Spagnola e serio contendente per il Triplete a fine stagione. Le due partite che seguirono, al Montjuic e a San Siro, riassumono perfettamente il concetto di spettacolarità; a scanso di tatticismi gli Azulgrana e l’Inter si esibiscono in un intreccio di gol, ribaltoni, controrimonte, tredici gol totali e finale al cardiopalma ai supplementari, propiziato dall’imponderabile azione del gol di Acerbi allo scadere, il segno più vivido lasciato in dote da questa stagione interista.

Per quanto riguarda i parigini, l’apporto di Luis Enrique è stato evidente fin da inizio stagione, smaltita la presenza di superstar ingombranti, ultimo della lista Mbappè, passato in estate al Real, l’annata si sarebbe fondata su una rifocalizzazione del club sui concetti di gioco, investimenti mirati e zero protagonismi. Con un primo passaggio a rilento nel girone il PSG riaccende subito la miccia della competizione affondando il Brest ai play-off con un rotondo 10-0 complessivo. Al turno successivo il Liverpool, primatista a punteggio pieno nel girone e dominatore della Premier League, fa presagire una sfida dal sapore di finale anticipata. Senza il favore dei pronostici, i parigini prima sconfitti in casa per 1-0 pur avendo condotto il match in totale dominio, si ritrovano a sbancare Anfield ai rigori, riuscendo prima a riagguantare la partita in casa dei Reds. Il cammino della squadra di Luis Enrique decreterà la sconfitta di altre due inglesi: per prima l’Aston Villa, guidato dall’ex Unai Emery, allenatore pragmatico capace di incartare le partite anche alle squadre più rodate, ritrovandosi sotto nel punteggio per tre quarti dei minuti giocati sia all’andata che al ritorno tenterà invano un forcing totale sospinto dal pubblico di Birmingham, dovendo poi arrendersi al parziale complessivo di 4-5 per i parigini.

Sarà poi l’Arsenal a capitolare, sormontata dal PSG in entrambe le gare, salvo qualche rara fiammata degli uomini di Arteta prontamente respinta da un eccezionale Donnarumma. Un tabellone infuocato che sa di predestinazione per entrambe le protagoniste di questa Champions, sarà quindi l’Inter ad abbracciare la sorte oppure il PSG saprà raccogliere i frutti di un operato così illustre? Addentriamoci nell’analisi tattica della partita.

1 Inter: Ecco perchè rischiare

Quando una squadra italiana performa in maniera così eccezionale ed insperata eliminando avversari di grande blasone a spendersi in prima battuta sono di solito gli elogi alla fase difensiva, a come si sia riusciti a difendere la porta attuando una gara di resistenza, in una narrativa che ricalca la sempreverde immagine di Davide contro Golia. Non è esattamente questo il caso e l’intento delle analisi sarebbe quello di rompere categorie dicotomiche come ”difensivismo” o ”giochismo”.

Certo, i nerazzuri hanno sempre dimostrato un’attitudine tenace e grande concentrazione nella difesa posizionale, fondamentale in cui interpreti come Acerbi, Bisseck, Pavard e lo stesso Bastoni eccellono, ma i motivi del successo contro Barcellona e Bayern risiedono soprattutto in altri aspetti della partita. Nelle due mezz’ore centrali di andata e ritorno contro i bavaresi, l’Inter ha dato prova di grande capacità nel gestire il rischio, uscendo sovente con il palleggio e mostrando estrema fluidità di posizioni, che hanno messo più volte in crisi il pressing a uomo messo in atto da Vincent Kompany. Allo stesso modo si potrebbero definire ammirabili i primi 45 minuti del ritorno contro gli azulgrana, perfetti sotto il profilo del pressing offensivo e della costruzione. Davvero si poteva auspicare un passaggio del turno contro due corazzate simili se quel terzo dei minuti giocati in maniera più aggressiva fosse stato impegnandosi soltanto a difendere gli assalti avversari?

Per le medesime ragioni gli uomini di Inzaghi dovranno sfruttare la prima parte di partita contro il Psg dedicando quanto più possibile le energie alla costruzione, con un rischio calmierato di subire ripartenze data la maggiore freschezza ad inizio partita e le traiettorie di corsa dei centrali e dei quinti ancora non inficiate dalla fatica. Il 352 di Inzaghi rappresenta un fenomenale operato di ingegno tattico e flessibilità, quel che è certo è che per caratteristiche degli interpreti l’Inter non è adatta alla gestione della partita con il solo utilizzo del non possesso, finchè ci sarà benzina nel serbatoio i nerazzurri dovranno quanto più tentare di portarsi avanti nel primo tempo.

Attaccando contro un 433 spiccatamente offensivo la costruzione dell’Inter dovrà vertere sulla ricerca dell’ampiezza, ad innescare in particolar modo Dimarco, il quale dovrà stare alto in pressione su Hakimi, impedendo al marocchino di sprigionare l’allungo e dandogli fastidio sul posizionamento difensivo. Qualora si riuscisse ad innescare il laterale mancino la soluzione del cross da quinto a quinto risulta immediata, sebbene Dumfries a palla ferma diventi un giocatore pressochè inutile contro i primi passi brucianti di Nuno Mendes, ecco che i palloni alti a spiovere sul secondo palo potrebbero azionare la superiorità clamorosa dell’olandese nel gioco aereo, come già ampiamente dimostrato nelle gare precedenti.

Apporto significativo dovranno fornirlo Mkhitaryan e Barella, indicati a farsi trovare in zone interlocutorie rispetto al pressing feroce degli uomini di Luis Henrique, sfruttando anch’essi l’ampiezza a liberare i corridoi centrali per gli attaccanti. A quest’ultimi il compito di giocare in linea verticale l’uno rispetto all’altro, con Lautaro pronto a ricevere tra le linee e a mettere fuori asse la linea difensiva composta da Pacho e Marquinhos, alla ricerca poi del corridoio per Thuram, uomo chiave per la finalizzazione di tutte le azioni verticali dei nerazzurri.

Preferibilimente il francese dovrà agire sul centro sinistra, provando a ricercare il duello fisico con Marquinhos; il centrale brasiliano paga dazio in merito a centimetri e allungo nello spazio. Il mismatch più importante da sfruttare per l’Inter sarà quello dei calci piazzati, vera e propria arma letale a disposizione di Inzaghi, con la propria squadra che impone un vantaggio di altezze sostanziale. Se il piano tattico dovesse reggere, addirittura passando in vantaggio, le sostituzioni nel secondo tempo saranno essenziali per l’apporto di energie nuove e per il consolidamento del risultato.

La mossa del 451 ha certamente dato i suoi frutti sia contro il Bayern che contro il Barcellona, blindare le fasce lasciando lo spazio solo per i cross dalla lunga distanza è una soluzione che dovrà essere impiegata sfruttando anche il vantaggio emotivo di essere avanti in una finale. Occhio quindi a Carlos Augusto dalla panchina, eccezionale difensore nei duelli aerei e utile anche a ribaltare il fronte in ripartenza, a Zielinski per gestire meglio il pallone in uscita dal pressing, a Bisseck, che può portare agilità e centimetri dalla panchina soprattuto per resistere agli uno contro uno, De Vrij per aver maggiore fosforo in zona centrale, gestendo la profondità e a Taremi, già utile nell’arginare Yamal, dovrà farsi trovare pronto anche questa volta ad una gare di sacrificio. Una postilla dolorosa da accettare per i calciatori, soprattutto alle soglie di una finale, ma di utile spendibilità e il non lesinare sui cambi anche nel primo tempo o alla fine dello stesso se le cose non dovessero funzionare.

2 PSG: i segreti della macchina perfetta

Il mantra di Luis Enrique è chiaro: ogni elemento della rosa rappresenta un fulcro di gioco. La costruzione del PSG avviene infatti con tutti gli uomini, il possesso è costante e il pressing ultra offensivo. Già autore di un Treble nel 2015 con il Barcellona, l’allenatore catalano è riuscito a riproporre i suoi principi di gioco sia con la nazionale spagnola che con i parigini, quest’anno agevolato paradossalmente dalla mancanza di accentratori di gioco e finalizzatori puri.

Luis Enrique ha sottolineato più volte la mancanza di stelle di questo PSG; che lo abbia fatto per falsa modestia o appropriazione di meriti non spetta a noi dirlo, quel che è chiaro è che dall’allestimento di un red carpet per i vari Di Maria, Neymar, Messi e Mbappè, il PSG ha ripreso a macinare calcio, apparendo ancora più concreto. Il 433 dei parigini ha il pregio di saper mutare, adattandosi alle defezioni avversarie, pur mantenendo intatti i concetti di ricerca dei mezzi spazi tipici del calcio posizionale.

La costruzione può infatti avvenire con i due centrali difensivi molto larghi e uno dei centrocampisti, tipicamente Joao Neves, che si abbassa ricercando poi la verticalizzazione. Vitinha è l’uomo deputato a giostrare il possesso dalla metà campo in su, il portoghese si è dimostrato durante tutta la Champions League e non solo una macchina perfetta per quanto riguarda i passaggi, con una media di precisione che supera abbondantemente il 90 percento, bravissimo a girarsi nello spazio sfruttando il controllo palla e le leve corte, non soffre per nulla il pressing avversario, sarà una spina nel fianco costante per tutto il centrocampo nerazzurro. Il trio d’attacco composto da Kvaratskhelia, Dembelé e Doué rappresenta una sinfonia di interscambi, fluidità, rapidità e capacità tecniche nello stretto; tre mezze punte di tale portata a dialogare l’una con l’altra serviranno a mettere in crisi il posizionamento della difesa nerazzurra, soprattutto per quanto riguarda Acerbi, più adatto a difendere sui riferimenti, molto meno su mezze punte brevilinee che non concedono punti d’appoggio.

Il vero propellente di ogni manovra del PSG è rappresentato dai due terzini; Mendes e Hakimi formano una coppia di intensità e progressione ineguagliabile, sempre pronti a fornire ampiezza al centrocampo e all’attacco, aggressivi in pressione e fondamentali nei recuperi, con il marocchino che sa offendere anche in percussione centrale, finalizzando con stoccate dalla media distanza.

La costruzione contro l’Inter dovrà essere specificatamente a 3, per mettere fuori fase il pressing delle due punte, ricercando poi l’ampiezza e gli uno contro uno di Kvara e Doué a spezzare i raddoppi, per poi andare al tiro da fuori o cercare Dembelé, capace di concludere da qualsiasi posizione con entrambi i piedi. Se la faccenda dovesse andare per le lunghe Barcola sarà essenziale dalla panchina per dare ricambio ad uno dei tre violini lì davanti. Le palle inattive, si sa, possono rappresentare uno svantaggio, ma come tuonava lo stesso Luis Enrique nel prepartita contro l’Arsenal: ”Pensate forse che il patentino me lo abbiano regalato?”, alla domanda su come il mismatch in fatto di centimetri potesse determinare la gara in negativo. I parigini sapranno quindi mettere in atto una contraerea efficace, almeno dal punto di vista delle posizioni, contando in ultima istanza su un portiere in assoluto stato di grazia come Donnarumma.

Al di là della teoria c’è però da sottolineare per entrambe l’impatto emotivo di un match di questa portata; se il doppio turno delle semifinali riesce spesso a dar vita a partite accesissime e spettacolari come quelle offerteci da questa annata di Champions, le finali risultano spesso molto più statiche, sia per attendismo e cautela che per comprensibile ansietà, per la quale, purtroppo, non esiste nessun tipo di antidoto brevettato. Vedremo dunque come si dipaneranno le trame del destino, se ad uscire vittoriosi saranno i nerazzurri, riportando dopo quindici anni il trofeo più ambito in Italia, dopo l’indimenticabile notte di Madrid, oppure se il Paris Saint-Germain riuscirà a placare la propria sete di vittorie e quella di un’intera metropoli che negli ultimi anni ha assunto visceralmente il calcio come stile di vita.

Sebbene l’imponderabilità giochi un ruolo essenziale nel determinare risultati di questo tipo, non si possono non sottolineare l’ingegno e la dedizione nella costruzione di prestazioni come quelle che queste due squadre, coordinate da due superbi staff tecnici, ci hanno fatto ammirare; non saranno quindi i novanta minuti di Monaco di Baviera a determinare la qualità del lavoro svolto fin qui, anche nel riconoscimento dei limiti di ciascuno, base fondante della crescita futura, che pure qualcosa più di una singola partita dovrà pur valere…

DI GIANMARCO COMAI

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