In Italia non è così scontato, quando si ha che fare con l’attività calcistica di base, imbattersi in società realmente virtuose, in grado di non perdere di vista valori ed obiettivi in ambito giovanile. Ma se è vero che esistono esempi di virtuosità e competenza, è altrettanto vero che, se si prende in considerazione la stragrande maggioranza delle realtà giovanili del panorama calcistico italiano, la situazione non è altrettanto rosea.
Di fatti, per le categorie composte da bambini che frequentano la scuola primaria, ci si rende spesso conto di quanto il focus delle società e degli addetti ai lavori non sia rivolto tanto al raggiungimento dei veri obiettivi per la categoria in termini tecnici, sociali, psico-fisici, quanto alla vittoria o meno delle partite. Si, ho scritto sociali: il calcio è uno sport popolare e di squadra, e la componente sociale, nonché il concetto di inclusione, indipendentemente dal livello di “bravura”, dovrebbe, a mia opinione, annoverarsi sempre tra i pilastri di questa disciplina.
E quando si vuole vincere non bisogna rischiare e commettere errori.
Di conseguenza vengono implementate ed applicate metodologie di allenamento volte a standardizzare le caratteristiche dei giocatori, in questo caso bambini, sottraendo spazio all’estro e a quella creatività che tipicamente sorge in questa fase della vita. A mio avviso questa è una delle principali cause determinanti, ai massimi sistemi, tra i professionisti, dell’assenza o quasi di giocatori abili nell’uno contro uno o nel gioco in verticale.
Siamo un popolo strano: alle volte resto ancora più sorpreso quando sento che l’errore viene tollerato da parte di alcuni genitori se commesso a scuola, quando poi per lo stesso figlio è assolutamente intollerabile quando commesso sui campi di calcio, ad esempio per uno stop impreciso o un passaggio errato.
Come mi ha insegnato un bravissimo allenatore anni addietro (che peraltro ha giocato a calcio e futsal da professionista) il vero obiettivo delle scuole calcio dovrebbe consistere nel formare TUTTI i propri atleti. Ricordo chiaramente le sue parole: “I bambini perché vanno a scuola? Per imparare. Lo stesso dovrebbe avvenire anche nelle scuole calcio”. Niente di più vero. E posto che l’obiettivo vero sia l’apprendimento, per poter imparare, l’errore è una condizione imprescindibile che deve avvenire affinché esso venga seguito da un miglioramento.
GROWTH MINDSET
Il pensiero sopra descritto, trova, a mio avviso, fondamento negli studi della Professoressa di Psicologia all’Università di Standford, Carol Dweck. La Professoressa Dweck aveva chiesto a bambini di 10 anni di risolvere un problema più complicato rispetto alla loro età. Dopo averli osservati è arrivata alla conclusione che alcuni degli studenti erano estremamente stimolati e motivati nell’affrontare il problema, perché stavano imparando qualcosa di nuovo, senza la preoccupazione di commettere errori. Anzi, pensavano che le loro abilità sarebbero migliorate proprio commettendo errori. Questo gruppo di bambini possedeva una “Growth Mindset”, una mentalità orientata alla crescita.
A questo gruppo, si contrapponeva un altro, nel quale, al contrario, ogni bambino, risolvendo il problema più complicato credeva che la propria intelligenza venisse giudicata e pertanto viveva l’esperienza come catastrofica, da evitare in futuro. Questa predisposizione mentale è stata definita dalla Professoressa Dweck “Fixed Mindset”. In un’ulteriore indagine, i ricercatori hanno spiegato al gruppo di studenti che ogni volta che escono dalla loro zona di comfort e affrontano delle difficoltà, senza timore di sbagliare, possono imparare qualcosa di nuovo, ed è stato altresì studiato che vengono generate delle nuove connessioni a livello celebrale. Il sistema nervoso, infatti, viene descritto come un albero: stimolando nuove connessioni, crescono nuovi rami. I bambini hanno iniziato ad affrontare la sfida in modo differente, con una nuova mentalità. Prima vedevano la difficoltà come un rischio, qualcosa di inadeguato dal quale fuggire mentre in questo caso, grazie alle rassicurazioni iniziali, senza il timore di commettere errori, i bambini hanno IMPARATO, sviluppando nuove abilità e rinforzando quelle esistenti.
Ritengo che questo studio, e ciò che ne consegue, possa valere in ogni ambito della vita, nella scuola e nel calcio. Ho recentemente partecipato ad un torneo con la mia squadra rivolto alla categoria Piccoli Amici (bambini di 5/6/7 anni) notando che, nella stragrande maggioranza dei casi, ci stavamo confrontando con squadre tatticamente molto organizzate dove i piccoli non si azzardano nemmeno a provare una giocata uno contro uno e questo, a mio avviso, va in netta contraddizione, anche dal punto di vista tecnico, alle linee guida della categoria in esame, in quanto, i bambini, in questa fase, dovrebbero giocare con maggiore libertà poiché ciò li aiuterebbe a migliorare, anche individualmente, da un punto di vista tecnico.
Ho sentito urla da parte degli allenatori verso i piccoli giocatori in caso di distrazione, fenomeno, peraltro, del tutto normale quando si ha a che fare con un bimbo al terzo anno della scuola dell’infanzia, o in caso di non corretta esecuzione di un passaggio piuttosto che un altro. Questa cosa mi ha particolarmente irritato ed infastidito perché, nonostante io non sia un cultore della materia, credo che atteggiamenti di questo tipo vadano assolutamente contro ogni tipo di principio pedagogico. Al contrario, sempre durante la medesima competizione, ho avuto modo di osservare allenatori meno appariscenti, che lasciano spazio anche al divertimento dei bambini, senza preoccuparsi degli errori o imbrigliandoli in schemi inutili per l’eta’. Questi allenatori “controtendenza” rispettano i veri esempi del calcio che vorrei.
GLI ALLENATORI EDUCATORI ASSUMONO UN RUOLO CHIAVE
Un ruolo chiave lo assume l’allenatore che non deve giudicare o demonizzare quando vengono commessi degli errori da parte dei propri atleti, ma deve viverli e farli vivere loro come opportunità di miglioramento, in modo da comprendere su che cosa lavorare maggiormente in futuro affinché venga facilitata la crescita. L’errore, visto sotto quest’ottica, può portare a degli enormi benefici.
Se notiamo un giovane atleta sbagliare un gesto tecnico siamo davvero sicuri di essere stati chiari nella spiegazione? Di aver proposto delle sessioni adeguate al suo livello iniziale? Abbiamo considerato che è necessario arrivare gradualmente all’esecuzione di gesti complessi dal punto di vista coordinativo?
Spesso la risposta alla domanda che ci facciamo quando riteniamo che qualcosa non sia stato fatto bene da altri dipende in realtà da ciò che non abbiamo fatto bene noi, o da come ci siamo interfacciati con essi.
È il momento di cambiare rotta, bisogna essere innovativi e coraggiosi, spostando il focus dal desiderio innato di superare gli avversari a ciò che davvero rappresenta il bene per i propri atleti, dando pertanto non importanza al risultato della partita, ma ai processi che stanno affrontando.
Così come ritengo sia del tutto inutile classificare gli atleti come genericamente “bravi” o “non bravi”: “Tizio è forte mentre Sempronio è veramente scarso, soprattutto nel tiro in porta”. Sono queste le frasi che spesso si sentono sui campi di calcio. E se Tizio avesse già sviluppato uno stradominio fisico per via di una precoce crescita mentre Sempronio, veloce nel pensiero, con un ottimo tocco di palla, ma fisicamente ‘acerbo’ con una muscolatura non completamente sviluppata e necessaria per poter calciare forte in porta?
Additare un giovane atleta come scarso o farglielo percepire, significa precludere la possibilità che egli compia dei gesti e tenti delle giocate, e che quindi commetta errori necessari ad affinare la tecnica.
Ammesso che CIASCUNO di noi possieda dei punti di forza da individuare e valorizzare, nell’ottica sopra descritta è bene incoraggiare a tentare; ciò che non riusciamo a compiere oggi non necessariamente non riusciremo a farlo domani.
“Oggi hai lavorato davvero bene sul passaggio e stai migliorando a vista d’occhio, mi raccomando, continua così. Dalla prossima sessione dovremo cercare di esercitarci maggiormente nel tiro in porta, perché sono certo che, indipendentemente da quanto tempo ci vorrà, potrai migliorare anche in questo fondamentale.”
Nell’immaginario comune l’Allenatore è un esperto conoscitore della tecnica e della tattica, ma attenzione: le cosiddette soft skills, spesso sottovalutate, valgono tanto quanto le conoscenze tecnico/tattiche. Insegnare calcio è un lavoro faticoso, che richiede l’investimento di tempo e tanta pazienza, me ne rendo conto, ma con questo approccio e questa chiave di lettura il risultato finale ripagherà certamente l’attesa.

Bio: Luca Innocenti
Ex giocatore di Calcio a 5 in campionati nazionali. Da ragazzo, nella stagione 2002/2003, ha vinto insieme al Seregno calcio a 5 uno storico scudetto Juniores, laureandosi Campione d’Italia. Ha collezionato alcune presenze con la Nazionale Italiana di calcio a 5 (Under 18 ed Under 21).
Istruttore qualificato di scuola calcio, da diversi anni allena e coordina progetti calcistici (aventi un taglio “Futsal”) giovanili, anche collaborando con professionisti provenienti da altre nazioni europee. É allenatore e Responsabile dell’attività di base dei Saints Milano.
Ha scritto il libro “L’allenatore di Futsal nelle categorie giovanili” ed è autore nel blog: betterfutsalcoaching.wordpress.com.
Da decenni è sostenitore e promotore dell’insegnamento del Futsal anche nei settori giovanili di calcio.
Detesta l’esasperazione della competizione in ambito giovanile e crede fortemente che il vero successo di un allenatore (e di una società sportiva) consista nel creare in primis un clima di armonia, dove tutti si sentano partecipi, e che la valorizzazione, la passione e l’entusiasmo dei propri atleti valgano molto di più della vittoria di un trofeo.
2 risposte
Complimenti per l’articolo e in particolare per il paragrafo di chiusura. Mi rendo conto che sembrano luoghi comuni ma chi ha avuto la fortuna di vivere e lavorare in altri Paesi sa quanto punitiva e inibitoria sia la cultura italiana nei confronti di giovani e giovanissimi
La ringrazio di cuore Alessandro per i complimenti. Concordo con lei, anche io ho modo di confrontarmi frequentemente (a livello sportivo) con realtà estere e devo dire che in Italia bisognerebbe iniziare a guardare ai giovani come a delle risorse da valorizzare smettendo di avere come primo pensiero quello di mortificarli, punirli, affliggerli e demotivarli.
Un caro saluto
Luca